Tuttolibri, 21 gennaio 2023
I due discorsi con cui Giovanni XXIII inaugurò il Concilio Vaticano II
L’11 ottobre 1962 è una data storica per il cattolicesimo. In quel giorno papa Giovanni XXIII aprì il concilio Vaticano II. Quella giornata segnò l’iniziò del processo che rivoluzionò la chiesa cattolica. Da quella data non fu più la stessa perché coloro che furono i veri protagonisti del concilio, i duemila e cinquecento vescovi cresciuti sotto le direttive e le mentalità di Pio XI e Pio XII, vissero l’esperienza del concilio come una personale e del tutto impensabile trasformazione. Nel 1996 Giovanni Paolo II, anch’egli padre conciliare, a un gruppo di storici spiegò che i vescovi erano «entrati con una testa e una mitria; e quando erano usciti era uguale solo la mitria».All’11 ottobre 1962 Alberto Melloni – autorevole voce della ricerca storica sul cristianesimo e segretario della Fondazione per le scienze religiose di Bologna – dedica l’agile ed eccellente saggio Persino la luna. 11 ottobre 1962: Come papa Giovanni aprì il Concilio. Il punto di vista da cui Melloni ad un tempo documenta accuratamente e racconta con saporosità la preparazione e lo svolgersi di ciò che avvenne in quello storico giorno è quello di Giovanni XXIII, concentrandosi essenzialmente sui i due epocali discorsi che il papa pronunciò al mattino e alla sera di quella giornata.Giovanni XXIII era stato eletto anziano – quanto oggi un ottantaseienne – per essere un papa «di transizione», e Roncalli non deluse le aspettative restando in carica quattro anni e mezzo. Se non fosse che, sorprendendo tutti, il 25 gennaio 1959 annunciò ad una quindicina di attoniti cardinali l’intenzione di convocare un «Concilio generale» al quale sarebbero stati invitati i «fedeli delle Chiese separate» al fine di «partecipare con noi a questo convito di grazia». Da subito il disegno roncalliano è dunque quello di un concilio «ecumenico» in senso nuovo, che non fosse di definizioni dottrinali e di condanne ma un «convito di grazia». Quel discorso calmo e travolgente, di cui quasi nessuno conosce il manoscritto di Roncalli, sarebbe rimasto ignoto a tutti, eccetto che ai presenti che risposero con un «silenzio esterrefatto», come il papa ebbe più volte a dire con ironia. Nei giorni successivi, con lentezza, gli uffici della segreteria di Stato diffusero una nota dalla quale scomparirono le dizioni di «Concilio generale», la denominazione «Chiese» riferita ai non cattolici e l’espressione «convito di grazia». Si legge nel finale della nota: «Rinnovato invito ai fedeli della Comunità separate a seguirCi anch’esse amabilmente in questa ricerca di unità e di grazia, a cui tante anime anelano da tutti punti della terra». Commenta Melloni: «Se ci fosse bisogno di dire quando incomincia il tiro alla fune sul Vaticano II fra l’intuizione innovatrice roncalliana e la pretesa di incorniciarla dentro stilemi del passato prossimo, queste poche righe forniscono una risposta inequivocabile: subito».Papa Giovanni affidò la preparazione del concilio al segretario di Stato, il cardinale Domenico Tardini, e alla curia romana del suo insieme, mantenendo per sé una posizione inattiva: non disse nulla, non proibì nulla, non contestò nulla. Tenne invece gelosamente a sé la redazione del discorso con il quale avrebbe aperto l’assise conciliare. Dall’estate precedente affidò a monsignor Zannoni le stesure e le successive revisioni del manoscritto perché le traducesse in latino. Nei capitoli centrali del saggio, Melloni consegna un magistrale commento all’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia, un discorso durato trentasette minuti e quaranta secondi che «segna davvero l’apertura del concilio – commenta Melloni – non del mero senso del suo avvio, ma nel senso del dischiudersi di un varco dal quale il concilio esce verso ciò che avrebbe dovuto essere». Sottesa al discorso c’è la teologia di Roncalli, una teologia in atto, da lui stesso definita «pastorale», radicata nelle Scritture sante e grande tradizione cristiana.Con Gaudet Mater Ecclesia papa Giovanni archivia la cultura del nemico, quella della paura e del sospetto che avevano abitato l’ossessione antimodernista della chiesa. Giovanni XXIII «apre» il concilio attraverso l’affermazione che la verità non è un oggetto da difendere dai rischi che l’incontro con gli altri e con il mondo può provocare, ma la verità è una relazione fiduciosa e fraterna da instaurare. Il concilio si deve concentrare su quello che la chiesa può dare al mondo, ossia l’Evangelo di Gesù Cristo. Ma per raggiungere il cuore del messaggio cristiano la chiesa è chiamata a riconoscere che «altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento». Per papa Giovanni il Vaticano II non dovrà essere un concilio di condanna perché «oggi la Sposa di Cristo preferisce far uso della medicina della misericordia piuttosto che della severità». Per Melloni questo «era l’atteggiamento che il papa chiedeva ai padri conciliari: lasciando loro la libertà di essere protagonisti del concilio».Roncalli ordinò a monsignor Loris Capovilla, suo fedele segretario particolare ed esecutore testamentario, di conservare con cura le diverse redazioni del discorso in un archivio fuori dalle mura del Vaticano, non solo per essere studiate ma perché resti traccia del fatto che è suo «dalla prima all’ultima parola», come ebbe a puntualizzare allo stesso Capovilla al termine della grande liturgia di apertura del concilio mentre con l’ascensore risalivano all’appartamento. Melloni osserva argutamente che al pur umile Roncalli non sta bene che chi capirà l’intelligenza di quel discorso l’attribuisca ad altri «al punto da volere che fosse accessibile almeno agli storici la base documentaria, perché la sua paternità emergesse netta e ne restasse inequivoca traccia».La sera di quel’11 ottobre 1962 papa Giovanni si affaccia alla finestra del suo studio e in modo anche per lui del tutto imprevisto rivolge alle migliaia di persone convenute per una spettacolare fiaccolata un discorso a braccio che prosegue idealmente il filo dei pensieri con i quali aveva intessuto la Gaudet, di cui il discorso passato alla storia come «il discorso della luna» è una sorta di interpretazione e integrazione. «Si direbbe che anche la luna si affretta stasera a guardare a questo spettacolo», «La mia persona non conta niente: è un fratello che parla a voi», e ancora «Tornando a casa, troverete i bambini, date loro una carezza e dite: Questa è la carezza del papa».Rileggere oggi quell’allocuzione e quel discorso, serve ancora?, si domanda Melloni. Sì, risponde, perché al «papa buono» sia riconosciuto lo spessore storico, teologico e spirituale che gli è proprio, e che quello che iniziò quell’11 ottobre 1962 è un cammino nel quale il cattolicesimo ha imparato che, come ebbe a dire Roncalli in punto di morte, «non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio».