la Repubblica, 31 ottobre 2022
Su "Till – Il coraggio di una madre" di Chinonye Chukwu
Il film dedicato all’atroce linciaggio di Emmett Till appartiene a quel genere di prodotti importanti per la storia raccontata e ammirevoli per la nobiltà degli intenti, ma modesti da un punto di vista cinematografico. Rientra insomma nella categoria più temibile della storia del cinema, quella del film “necessario”, che dimentica la lezione di Samuel Goldwyn: “Se devi mandare un messaggio, usa il telegramma”. Nonostante non sia esente da pregi, a cominciare dalle ottime interpretazioni, il messaggio prevale sulla forma e Till finisce per entusiasmare chi confonde la passione con la qualità, facendo breccia sui votanti dell’Academy.
Nella traiettoria del percorso verso gli Oscar pesano anche altri elementi, oggi estremamente rilevanti: il rilancio di una major come la Metro Goldwin Mayer, per troppi anni legata quasi esclusivamente alla franchise di James Bond; il tentativo di resurrezione della Orion Pictures; la testimonianza in prima persona di Whoopi Goldberg, che ha prodotto il film e si ritaglia un piccolo ruolo. Infine, a costo di dire qualcosa di politicamente scorretto, la regia di una donna di colore come Chinonye Chukwu, professionale, efficace ma a volte inutilmente stucchevole.
È necessario ripercorrere la vicenda raccontata, avvenuta nel Mississippi alla fine dell’estate del 1955. Negli Stati del Sud la segregazione era ancora una tragica realtà, e il razzismo un abominio che generava orrori quotidiani, a cominciare da linciaggi non perseguiti dalla legge: le poche volte che i responsabili erano trascinati di fronte a un giudice venivano regolarmente assolti. È quanto succede nel caso di Emmett “Beau” Till, un quattordicenne di Chicago in visita ad alcuni parenti nel Mississippi. Nonostante i ripetuti avvertimenti della madre Mamie sul violento razzismo di quello Stato, Beau commette l’errore di fare un complimento galante a una ragazza bianca che lavora come cassiera in una drogheria, dicendole testualmente «ricordi una stella del cinema». Per tutta risposta la giovane imbraccia una pistola mettendo in fuga Beau e quindi avverte la propria famiglia. Quella stessa sera il ragazzino viene prelevato con la forza dalla casa dei parenti, massacrato di botte e ucciso con un colpo di pistola: i due assassini infierirono con tale crudeltà sul suo volto da renderne irriconoscibili i lineamenti prima di gettarne il cadavere in un fiume.
Mamie sviene quando apprende la notizia, poi sceglie di vedere il corpo del figlio e prende una decisione coraggiosa: chiede a un fotografo di immortalare il volto orrendamente sfigurato e impone che i funerali avvengano con la bara aperta, perché tutti vedano come è stato ridotto Beau dalla furia razzista. Vedova di un uomo ucciso al fronte durante la guerra mondiale, viene sottoposta a interrogatori che ne mettono in dubbio la moralità, ma riesce a reagire sempre con la forza della dignità. Nonostante le prove schiaccianti, i due assassini vengono assolti da una giuria composta interamente da bianchi, come anche la ragazza, che inventa di essere stata molestata da Beau.
Una storia tragica, imperdonabile e orribile che è giusto non dimenticare, ma proprio perché così dura e agghiacciante meritava una scelta registica sobria e scevra da ogni sentimentalismo, che invece affiora, sfiorando a volte il kitsch. Si esce dal cinema sconvolti e pieni di rabbia, specie quando si apprende che i due assassini arrivarono a vantarsi dell’omicidio in un’intervista per la quale percepirono quattromila dollari. Né loro né la ragazza sono stati puniti in alcun modo. L’unico l’aspetto positivo nato da questa mostruosità è stato il risvegliarsi della coscienza civile, che portò nove anni dopo alla fine della segregazione grazie alla Legge sui Diritti Civili per volontà del presidente Johnson.
Danielle Deadwyler è bravissima a interpretare Mamie, specie quando capisce che l’unico modo per sopravvivere alla tragedia è trasformarla in un’opportunità per la lotta contro il razzismo. La deposizione al processo, con le palpebre che continuano a battere mentre cerca di mantenere la calma, è un eccellente momento di recitazione e non sono da meno gli attori di contorno, compresi coloro che interpretano uomini e donne caratterizzati da un razzismo ignobile, barbaro e violento anche verbalmente. Sbaglierò, ma di questo questo film si parlerà nella notte degli Oscar: per quanto mi riguarda sono tornato a casa pieno di rabbia, indignazione e orrore, ma anche con il rammarico che per ricordare una vicenda così terribile, e fondamentale per la storia contemporanea americana, sia stata scelta la scorciatoia del sentimento.