La Stampa, 20 gennaio 2023
Selvaggia Lucarelli e i social
Selvaggia Lucarelli, scrittrice, giornalista e un sacco di cose, iperconnesse o (apparentemente) inconciliabili, curiosa di tutto, ha cominciato a scrivere per il teatro. Poi la radio. Poi la tv. Poi ha aperto un blog, Stanza Selvaggia, e - scrive Wikipedia - «è diventata nota». Ed è arrivato tutto il resto. I giornali, i libri, gli odiatori, gli adoratorti, le polemiche, le controversie, il rumore (mai bianco). Ha più di un milione di follower tanto su Twitter quanto su Instagram, e se facesse quello che sembriamo voler fare tutti, ora o tra un mese o un anno, e cioè disattivare tutti i nostri account sui social network, vivrebbe benissimo lo stesso ma qualcosa, forse, la farebbe peggio.
Lucarelli, i social ci hanno resi migliori? Peggiori? Sempre uguali?
«Per me i social sono come il successo: non è che trasformino la gente, la smascherano. Hai più libertà di azione, più potere, più strumenti per rivelare più o meno maldestramente forza e debolezze e alla fine quello che sei in potenza viene fuori. Io ero una discreta contestatrice al liceo, sui social sono una palla demolitrice, dicono».
A lei che effetto hanno fatto?
«Sono peggiorata perché mi rendo conto che ho rinunciato a parte della socialità, quella delle banali uscite a cena con gli amici. Sono migliorata perché essendo i social la nostra memoria storica, vedo quante volte ho cambiato idea sulle cose e tendo ad assolvere con più facilità l’incoerenza altrui».
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Dicono che siano al tramonto.
«Non credo, ma sicuramente c’è una certa disillusione sul fatto che si possa fare qualcosa per renderli un posto migliore. Io mi dichiaro vinta rispetto ad alcune battaglie. Ricorda per esempio i grandi dibattiti sull’odio online? La mia netta sensazione è che si stia metabolizzando un fatto, e cioè che abbiamo accettato l’idea che una certa quantità d’odio sopravviverà a qualunque censura o tentativo di educazione digitale. Se ci fa caso, l’hate speech è un tema che non appassiona più, ci sono più articoli sui cinghiali in città che sugli insulti online».
Ma mettiamo si avveri: come se lo immagina il mondo?
«C’è stato un periodo lontano in cui non sapevo cosa fare della mia vita, diciamo tra i 19 e i 22 anni, ero a Roma da sola, non ero convinta del mio corso di studi e nei tempi morti a casa facevo due cose: leggevo (e fin qui), ma soprattutto facevo puzzle. Li compravo proprio e li facevo sul letto con un cartone sotto. Forse sarebbe stato più stimolante litigare con Crosetto su Twitter. La verità è che abbiamo questa idea nostalgica dell’uso migliore che in altre epoche facevamo del tempo- mia madre da piccola mi rimproverava di perdere troppo tempo in casa a giocare con le Barbie anziché giocare fuori in giardino come faceva lei da piccola- ma la verità è che se siamo scemi, senza social rimaniamo degli scemi con più tempo a disposizione».
È poi così certo che usare i social sia solo una perdita di tempo?
«No. Io imparo un sacco di cose sull’umanità, ci sono riflessioni di altri che mi spalancano porte, discussioni che ridimensionano il mio ego, scopro storie incredibili. E poi credo che il narcisismo incanalato nei social faccia meno danni che altrove. Un tempo era pieno di giornalisti, soprattuto uomini, che intervistavano facendo domande che erano lunghe il doppio delle risposte. Oggi non capita quasi più, perché pubblicano le loro foto su Instagram o la classifica dei giornalisti più influenti sui social e, appagati nell’ego, sono tornati ad ascoltare chi intervistano, una cosa commovente.
Concita De Gregorio ha scritto su La Stampa: «La costruzione di una reputazione a uso del popolo del web là fuori (in verità là dentro: stanno tutti a casa loro) ha fagocitato l’identità. La popolarità e il consenso hanno preso il posto della competenza, della fatica che serve». Che ne pensa?
«Credo che il mito della fatica come valore assoluto sia nocivo. Ci sono meriti che imboccano strade veloci e fortunate e non per questo bisogna diffidarne perché non hanno masticato la polvere di redazioni. Detto ciò, è vero che è pieno di giornalisti che ormai aggiustano il tiro delle loro opinioni per accontentare il popolino, ma c’erano moltissime firme note, e parlo anche di editorialisti strapagati, che cercavano il consenso partorendo banalità anche prima dei social. E sono ancora lì. Prima erano acchiappalettori, ora acchiappalike, ma il succo è lo stesso».
Perché non siamo stati capaci di regolamentare gli scambi online?
«Non si potranno mai regolamentare. Si può migliorare qualcosa ma il grosso sfugge e quello che sfugge è il classico bug della democrazia».
Continuiamo a dire che i ragazzi sono zombie attaccati al telefono. Io dico che, invece, quelli sono gli adulti.
«A casa mia la situazione è la seguente: io 1 milione e 200 mila like su instagram, la mia foto migliore come foto profilo, 4367 post pubblicati. Mio figlio Leon, 18 anni, due post pubblicati e la foto profilo di un manga non meglio identificato. Veda un po’ lei».
Che ne pensa di quelli che hanno abbandonato Twitter per boicottare Musk?
«Un’azione rilevante almeno quanto il mio rifiutarmi di vedere Italia 1 perché ha le Iene in palinsesto».
Il New York Times ha scritto che, senza social, Internet tornerà ad essere «un bel posto in cui stare». Lo è stato mai?
«Io sui blog mettevo le mie foto, ero più egoriferita di oggi, nei commenti c’erano gli hater che però non si chiamavano hater ma cazzoni avariati e leggevo blog altrui in cui si cazzeggiava parecchio. Solo una cosa era diversa: si potevano fare battute pessime senza venire crocifissi dalla prima Selvaggia Lucarelli che passa».
Abbiamo smarrito la differenza tra curiosità e morbosità?
«Io vedo più morbosità in tv che sui social. Una cosa buona dei social è che su certi temi, per esempio la cronaca nera, ci sono sentinelle implacabili. In tv ci sono ancora il dettaglio morboso, il servizio splatter, il talk sule mutande macchiate di sangue».
Chi sono i peggiori tra i suoi hater?
«I giornalisti».
Senza Twitter si vede smarrita?
«No perché esistevo anche prima dei social, che detta così sembra una citazione dalle Confessioni di Agostino, mi rendo conto».