La Stampa, 20 gennaio 2023
L’autobiografia di Eugenia Roccella
La sede di Via di Torre Argentina del Pr era un grande appartamento vecchio e malandato, piuttosto sporco (non ne ho mai usato il bagno, convinta che solo a toccare la maniglia avrei preso l’epatite), ma con la porta sempre aperta. Per un certo tempo rimase aperta anche di notte, dando rifugio a un’umanità malconcia e perduta. In una stanzetta angusta e senza luce c’era il Movimento di liberazione della donna. Lì, ogni lunedì pomeriggio, si riuniva un piccolo gruppo in cui allignava una buona dose di stramberia. Ma siccome alla stramberia ero allenata – e, diciamo la verità, un po’ mi attraeva – ci tornai. In quella minuscola riserva indiana di femmine stravaganti mi sentivo a casa.Anche mia madre, che frequentava da sempre il partito, cominciò a infilarsi con regolarità alle riunioni del Mld. Nei primissimi tempi del matrimonio aveva giocato alla mogliettina da manuale, passando la lucidatrice sui pavimenti e imparando a cucinare, ma si era subito stancata del ruolo, che non era nelle sue corde. La vita sociale, gli interessi culturali non bastavano a riempirle le giornate, visto che io tornavo dall’Overseas school con il pullman alle sei del pomeriggio, e papà non aveva orari. Decise quindi di iscriversi all’Accademia di belle arti. Cominciò allora il rovesciamento di ruoli che ha caratterizzato il nostro rapporto: quello di madre e casalinga, che lei non aveva mai accettato, diventò piano piano mio. Quando, a undici anni, cominciai a frequentare la scuola italiana, i miei orari cambiarono. Tornavo a casa più o meno alla stessa ora di mia madre, che andava all’Accademia. Preparavamo insieme il pranzo, poi lei andava a riposarsi, mentre io lavavo i piatti e sistemavo la cucina. A me non pesava. Le faccende di casa non mi sono mai dispiaciute, e Wanda mi sembrava una porcellana delicata e preziosa, inadatta alle piccole fatiche domestiche.Anche lei, come Franco, non era felice. Lui però nutriva (e perdeva) il suo tempo con una propensione all’eccesso e alla dispersione di energia che funzionava da valvola di sfogo per la sua vitalità. Mia madre invece non aveva energia né vitalità, e doveva prenderla in prestito da chi le stava vicino. Viveva una tensione costante verso qualcosa di indefinito, incapace di assumersi la responsabilità di sé e della propria vita. Non era attaccata ai beni materiali, ma chiedeva, anzi pretendeva, una protezione che fosse alla sua altezza, che non la deludesse. A modo suo, Franco gliel’ha data, ma lei voleva di più e soprattutto di meglio. Non era una signora annoiata in cerca di distrazioni, ma una donna inquieta che trovava intorno a sé modelli femminili per lei invivibili, costrittivi come camicie di forza. Non poteva ammettere esplicitamente, nemmeno con Franco, nemmeno con se stessa, che la maternità le faceva orrore, e che la morte di Simonetta era la conseguenza, tragica e non voluta, di questa drastica ripulsa. Le sue amiche avevano tutte due o tre figli. In quegli anni le donne potevano essere buone o cattive madri, ma comunque madri. Lei si sottraeva fuggendo in ogni modo e a qualunque costo i compiti materni, finché anche il suo corpo arrivò a rifiutarsi di accogliere l’embrione che provava a vivere dentro di lei. Ebbe alcuni aborti spontanei, e nessun’altra gravidanza. L’ipotesi di essere responsabile di un’altra persona, di esserlo per tutta la vita, costituiva, per una donna che rifiutava la responsabilità di se stessa, una prospettiva spaventosa. Il suo rifiuto affondava nel profondo. Quando allattavo il mio primo figlio, mi guardava con malcelato disgusto: «Stai sempre con quel bambino al seno. Ormai viviamo in un basso di Napoli!». Il suo legame affettivo con me, fortissimo, era una richiesta, a volte esasperata, di appagamento di bisogni suoi. Ci amavamo molto, ma era lei a esigere da me sostegno e compagnia, e non il contrario. La cosa più strana è che io l’ho capito fin da piccola, e con lei accantonavo i desideri infantili di protezione e affidamento (per quelli c’era solo Riesi) sforzandomi di offrirle quello che cercava. L’ho fatto fino alla fine.L’Accademia le diede l’occasione di mettere in campo la sua creatività e la voglia di sperimentare, e insieme le diede modo di essere quello che si sentiva, e che avrebbe voluto restare: una ragazza, priva di doveri familiari, libera di rimandare le scelte decisive. Vivere la ribellione sessantottina da studentessa in mezzo agli studenti fu un insperato recupero della giovinezza, ma anche quel periodo finì; lei diede la tesi mentre io preparavo la maturità, e come sempre la aiutai.Alle riunioni del Mld arrivavano persone di ogni tipo, come del resto nel Partito radicale. Il tema principale, agli inizi, era l’aborto. Io quasi non sapevo cosa fosse, ma lo imparai presto dai racconti penosi – a volte di vero orrore – che tante mi facevano. Un ginecologo cattolico, Adriano Bompiani, disse una volta che le donne sono disposte a tutto per avere un figlio, e disposte a tutto per non averlo. È così. L’ho capito anche pensando a mia madre. Se una donna rifiuta il minuscolo esserino che è entrato dentro di lei senza chiedere il permesso, se lo vive come un alieno ostile che le cresce in seno e prende possesso del suo corpo contro la sua volontà, è disposta a rischiare la vita, a uccidersi e ucciderlo, pur di cacciarlo via da sé. La maternità ha un suo lato oscuro, non è tutta luce. Mettere al mondo una vita, sentire un altro corpo che cresce nel tuo, richiede di fare ordine nel groviglio di pulsioni e sentimenti appassionati, violenti e contraddittori che si scatenano.Sul tema dell’aborto in famiglia avevamo posizioni diverse. Franco era molto netto, per lui si trattava di omicidio. Wanda era pannelliana fino in fondo, lo zigote non era ancora un essere umano, la donna sì, e dunque si doveva necessariamente privilegiare la sua scelta. Franco ribatteva che quando si uccide qualcuno lo si priva del futuro, non del passato, e per questo, non soltanto per la sua inerme innocenza, l’uccisione di un bambino è il più tragico dei delitti. Anche il povero zigote, se non fosse fatto fuori, avrebbe davanti a sé una vita intera. Io ero combattuta, a metà strada tra i due. Ammettevo che con l’aborto si sopprime una vita, ma pensavo che crescere nel corpo di un’altra persona impone che ci sia un consenso, e che l’aborto potesse essere considerato una drammatica eccezione all’intangibilità della vita, come lo è la legittima difesa.