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 2023  gennaio 20 Venerdì calendario

Billy Wilder giornalista

Notizie tratte da: Billy Wilder, Inviato speciale. Cronache da Berlino e Vienna tra le due guerre, La nave di Teseo, 2022
 
«Molto prima che lo sceneggiatore e regista Billy Wilder vincesse gli Oscar a Hollywood e scrivesse il proprio nome con la “y”, in omaggio alle convenzioni della sua patria adottiva, a Berlino e a Vienna i suoi numerosi lettori lo conoscevano come Billie Wilder. Era nato il 22 giugno 1906 a Sucha, una piccola località della Galizia a una trentina di chilometri da Cracovia, e all’anagrafe era stato registrato come Samuel Wilder, in ricordo del nonno materno. Sua madre Eugenia, comunque, preferiva il nome Billie. (…) Billie passò i primi anni della sua vita a Cracovia, dove suo padre, il galiziano Max (all’anagrafe Hersch Mendel), aveva cominciato una carriera nel settore della ristorazione. (…) Billie era un bambino iperattivo, incline a scatti di energia e a mettersi nei guai: aveva imparato molto presto a intascare le mance lasciate sui tavoli del ristorante paterno e a imbrogliare al biliardo gli ignari avventori. (…) Non passò molto che la famiglia Wilder si trasferì a Vienna, dove gli ebrei integrati come loro potevano realizzare più facilmente i propri sogni di ascesa sociale» (Noah Isenberg).
 
«Andare al cinema, vedere un incontro di boxe o sedere a un tavolo da gioco erano le attività preferite del giovane Billie. Anche se Max aveva altri programmi per suo figlio – una rispettabile carriera nel mondo dell’avvocatura, come per tanti bravi ragazzi ebrei della Vienna tra le due guerre –, Billie era attratto irresistibilmente dalla cultura popolare e urbana e dalle storie che essa alimentava. “Sapevo solo che non intendevo studiare legge, come invece avrebbe voluto mio padre”, raccontò al regista Cameron Crowe in Conversazioni con Billy Wilder. “Mi salvai accettando di fare il giornalista, anche se mal pagato”. Come spiega poco oltre nella stessa intervista: “Cominciai a scrivere i testi per i cruciverba, che firmavo”» (Noah Isenberg).
 
«Tra i più noti articoli di Wilder pubblicati da giornalista freelance, ci sono le quattro puntate apparse sul Berliner Zeitung am Mittag (poi riprese da Die Bühne) sulla sua esperienza come ballerino a pagamento per il lussuoso Eden Hotel. (…) Abbondanti dosi di umorismo caustico e inevitabili licenze poetiche si mescolano al veritiero resoconto dei lati meno nobili della sua occupazione: le ricche sfaccendate che chiedono i suoi servizi, i mariti gelosi che lo guardano come il fumo negli occhi, la fatica di passare ore e ore sulla pista da ballo. “Come ballerino non ero il numero uno”, dichiarò in seguito, “ma quanto a parlantina battevo tutti”» (Noah Isenberg).
 
«Nella stessa mattina ero capace di intervistare Sigmund Freud, Alfred Adler, Arthur Schnitzler e Richard Strauss. Uno dopo l’altro» (Billy Wilder, intervistato in merito ai suoi trascorsi giornalistici da Richard Gehman per Playboy nel 1963).
 
«Nel 1928, dopo avere fatto da ghostwriter in numerose sceneggiature, Wilder venne accreditato come unico sceneggiatore di un film che aveva più di un risvolto autobiografico. Si intitolava Der Teufelsreporter (più o meno “Il reporter indiavolato”), aveva come sottotitolo Im Nebel der Großstadt (“Nella nebbia della metropoli”) ed era diretto da Ernst Laemmle, nipote di Carl Laemmle, il boss della Universal. Ambientato nella Berlino contemporanea, racconta la vicenda di un frenetico giornalista, interpretato dall’attore americano Eddie Polo (che veniva dal mondo del circo), che lavora per un quotidiano non a caso chiamato “Rapid” e in cui è facile ritrovare caratteristiche dello stesso Wilder, che appare brevemente nella parte di un giornalista» (Noah Isenberg).
 
«Quando, nel gennaio 1934, Wilder si imbarcò sull’Aquitania alla volta degli Stati Uniti, il suo nome era apparso nei titoli di testa di qualche altro film e si era fatto un po’ di esperienza nello show business, ma la sua conoscenza dell’inglese rimaneva sommaria (ed era solo per fare scena che nei suoi bagagli aveva messo copie di seconda mano di Addio alle armi di Ernest Hemingway, di Babbitt di Sinclair Lewis e di Look Homeward, Angel di Thomas Wolfe). Da sceneggiatore con un contratto all’Ufa di Berlino era diventato un rifugiato senza lavoro a Parigi e infine un immigrato negli Stati Uniti, con venti dollari in tasca e la conoscenza di un centinaio di parole della lingua di Shakespeare. E dopo avere attraversato l’Atlantico cominciò a farsi largo negli studios della Mgm, della Paramount e delle altre major, unendosi a quel gruppo di rifugiati dell’Europa centrale che avrebbe cambiato per sempre Hollywood» (Noah Isenberg).
 
«La celebrata carriera americana di Wilder, come sceneggiatore e come regista, è per molti versi un frutto del suo lavoro come giornalista nella Vienna tra le due guerre e nella Berlino della Repubblica di Weimar. “Il suo è un cinema basato più sul dialogo scoppiettante che sulle acrobazie della macchina da presa”, ha scritto il critico tedesco Claudius Seidl. “Sono le parole a conferire ai suoi film la vivacità e l’eleganza che li contraddistinguono, dato che le parole volano più veloci e si librano con maggior grazia di qualunque carrello”» (Noah Isenberg).
 
«La professione di Billie è avere un alibi. Qualunque cosa succeda, lui ne ha uno. Dice di non essere stato presente neanche alla propria nascita» (Anton Kuh).
 
«A Stoccolma come a Singapore, al Cairo come a Montevideo, ovunque tutti sanno che a Vienna sono quattro le cose da vedere: le ragazze, la cattedrale di Santo Stefano, le taverne di Cobenzl e i caffè. Come è noto anche ai bambini, i caffè sono una tipica istituzione viennese. E giusto ieri è stato inaugurato il più bello di tutti: è all’angolo di Schwarzenbergplatz e del Parkring, e si chiama Promenaden-Café. Anche il cliente più viziato rimane a bocca aperta. L’elegante atrio rosso con i graziosi tavolini d’angolo, i saloni verde e azzurro, la sala da pranzo, il cibo appetitoso, i camerieri in frac, tutto parla di charme e di buon gusto. E c’è il caffè specialità della casa! Lode alla barista che l’ha inventato! In una tazza riempita per metà di una miscela di fragrante caffè Weiss nuota una montagna di panna montata. Uno tira l’altro, e ogni volta è sempre più buono» [Die Stunde, 17 settembre 1925].
 
«Posso facilmente immaginare che nel giro di due o tre decenni le menzogne saranno considerate come un supporto indispensabile e pertanto incontestabile delle nostre vite quotidiane, e che ci sarà un metodo scientifico per apprenderne l’uso corretto e appropriato. La menzogna sarà una materia scolastica obbligatoria, accessibile a chiunque; e, per quanto richieda dedizione indefessa e strenuo impegno, non sarà più privilegio dei pochi dotati di una predisposizione in tal senso. Questa democratizzazione, penso, costituirà la piena giustificazione morale e sociale di una risorsa finora ingiustamente biasimata. Sarebbe un modo, finora misteriosamente trascurato, per aprire nuove strade alla pedagogia moderna. Avete mai pensato a quale spreco scellerato di tempo ed energie sia una scuola che, di fronte alle sfide del presente, continui a escludere dal curriculum tutto quanto pertiene alla capacità di affrontare la vita vera?» [Berliner Börsen-Courier, 1° maggio 1927].
 
«Dovrebbero esistere scuole per insegnare ai giovani l’arte della truffa, dell’impostura, del raggiro! Quanto tempo si guadagnerebbe! E quanta energia vitale! E come sarebbe semplice fondare questa nuova disciplina: basterebbe uno studio della fisiognomica e delle tipologie umane, e qualche dritta sulla gestione e la drammatizzazione dei conflitti, unita a qualche esercizio vocale. In un futuro si spera non troppo lontano, un insegnante potrà iniziare così la sua lezione: “La volta scorsa abbiamo parlato di come accettare i complimenti. Oggi trattiamo dell’indignazione e delle tre forme che può assumere. Lederer, ci puoi fare una sintesi di ciò che abbiamo imparato finora?”. E il diciassettenne Lederer si alzerà e con la massima naturalezza ripeterà quella decina di frasi e di gesti che i quarantenni non riescono a gestire se non a costo di enormi sforzi. “Molto bene, Lederer”, dirà l’insegnante. “Attento solo al tono della voce, che deve essere un po’ più profondo. Accentua il gesto della mano verso il pavimento, e rallenta il tutto di un paio di secondi”. E da qui passerà a trattare i tre tipi di indignazione, le tecniche di saluto, l’espressione del disprezzo, il rapporto con le autorità, per concludere con la difficile ma fondamentale arte dell’autopromozione» [Berliner Börsen-Courier, 1° maggio 1927].
 
«Mamerto, Pancrazio e Servazio sono i santi dei giorni tra l’11 e il 13 maggio: in Germania si chiamavano Eisheilige (Santi del gelo) perché quei giorni erano spesso caratterizzati da gelate tardive» (Alberto Pezzotta).
 
«I rari conoscitori dell’arte del vivere che allignano tra voi conoscono il godimento di dare a qualcuno della capra o del cretino, papale papale, senza poi essere costretti a temperare quanto appena detto con una menzione del suo talento di pianista; o di dire che la tale signorina è francamente insopportabile, senza poi dover concedere che in fondo è un’anima timida che soffre di spaventose inibizioni. Facciamola finita con l’oggettività! È una cosa che turba l’animo, fiacca il carattere, e chi troppo vi indulge prima o poi è colto da severa nevrosi. (…) L’indulgenza in questa deleteria oggettività, al pari degli inchini o dell’andatura a papera, è un prodotto della cultura cortese, che per secoli è stata un modello della vita urbana. (…) È giunta l’ora che cessino le titubanze nell’esprimere un giudizio su questo o quello, che la gente torni allegramente, virilmente e senza falsa vergogna ad attribuire validità assoluta ai propri giudizi, come in una dittatura, che insomma si torni alla natura, al popolo da cui emana ogni potere, e che un idiota possa essere definito un idiota anche se sa comporre graziosi sonetti. Quella che invoco è una spietata dittatura dell’opinione. Non sentitevi più costretti a riconoscere le innegabili virtù di un amico la cui sola visione vi fa venire il voltastomaco. Pensate alla vostra salute! Torniamo ai sani, freschi e irrefutabili insulti di cui il nostro popolo è così abbondantemente fornito. Buttate fuori ciò che avete sulla punta della lingua. Basta con l’oggettività!» [Berliner Börsen-Courier, 20 maggio 1927].
 
Billy Wilder, nel giugno 1927 a Berlino, considerava estrema la temperatura di 29 gradi centigradi. «La colonnina del mercurio ha raggiunto i 29 gradi. Non perché qualcuno abbia avvicinato un fiammifero alla sua base, ma in modo del tutto naturale, in seguito all’atteso arrivo di un’area non ricordo più se di alta o bassa pressione. Fino a pochi giorni fa c’era chi sosteneva che anche le temperature più estreme del deserto sarebbero state piacevoli in confronto al tempo freddo, umido e instabile che ci affliggeva. Oggi possono farne la prova. Si beve acqua ghiacciata e si fanno impacchi di acqua ghiacciata. Si passa dal mal di stomaco al mal di testa. Dove ripararsi in un pomeriggio inutilmente libero come questo? Come affrontare questo attacco di delirio tropicale? Tanto vale tagliare le testa al toro e andare a ballare e bere un tè. Altri, impazziti per il caldo, sono già nel locale. Non è un miraggio, è la realtà di Berlino. Qualche decina di uomini e donne. Sudano di fronte alla loro limonata ghiacciata. Si sono arresi all’estate e fanno coraggiosamente il loro dovere. Il sassofono apre le danze. Tutti sono in pista per ballare il black bottom. Quando ci sono 29 gradi. (…) Fuori la calura è insopportabile. E Dio sa come i ballerini sembrino prenderci gusto. Forse non è così irragionevole combattere questa afa infernale con il black bottom. Si va in pista, a occhi chiusi» [Berliner Börsen-Courier, 1 giugno 1927].
 
«Verrebbe mai in mente al proprietario di un violino Amati di usare la carta vetrata per togliere la laccatura del suo strumento, i cui atomi risuonano di innumerevoli concerti e lo ricoprono di un bronzo dorato? Ma di una siffatta barbarie sono vittime sempre più frequenti i locali più amati. (…) È tutta colpa delle donne, credetemi, e della loro mancanza di senso della storia, che si manifesta disastrosamente nell’amore per l’ordine e la pulizia; del loro commovente attaccamento al presente, ignare come sono del passare del tempo, armate di cosmetici e battitappeti per contrastare lo scorrere degli eoni. Tutti i loro sforzi hanno come obiettivo la demolizione del tempo. Quand’è che a un uomo verrebbe in mente di cambiare la tinta di un atrio? Quando mai un pittore avrebbe immaginato che il suo pennello fosse un parente stretto di un piumino da cipria? E quando, d’altro canto, è mai capitato che una donna comprendesse lo spirito metafisico che trattiene un uomo dallo sbarazzarsi dei suoi vecchi cappelli, il tetto dei suoi pensieri? E così le mogli dei proprietari di venerabili caffè applicano ciecamente le proprie idee a locali dalla lunga tradizione, trattandoli come se fossero casa loro: da cui queste ristrutturazioni radicali che altro non fanno se non cancellare il tempo, offrendo ordine, comfort e una pulizia smagliante. Ma, se uno va al caffè, vi chiedo, non è proprio per evitare di stare a casa? E invece i consorti riluttanti sono costretti a stare al passo con i tempi, a rinnovare, alterare, aggiungere rosso e oro, lucidare, tingere il loro povero locale… Il caffè all’angolo, questo luogo così prettamente maschile, sta per femminilizzarsi in nome di un concetto distorto del passare del tempo, per cui tutto deve rinnovarsi di continuo e disconoscere i segni degli anni. Le venerabili rughe dei nostri locali di affezione sono cancellate dalle modanature dorate. E l’habitué è prostrato dalla estirpazione dei suoi ricordi, dalla distruzione delle parti di sé che vi ha infuso. Ma un caffè, per una donna, è come un vestito vecchio…» [Berliner Börsen-Courier, 13 luglio 1927].
 
«Un fiammifero, delicatamente sfregato sull’apposita superficie, si accendeva. Silenzioso e spettrale. Si alzava la fiammella bluastra dell’alcol della lampada, la cui fragranza si mescolava all’ultima traccia del legnetto morente. Mentre si scaldava con lieve mormorio, ecco aggiungersi una dolce nota di cacao. Cos’era quella meravigliosa sinfonia di profumi, che d’un tratto mi accarezzava la faccia? Alcol… cacao… legno… Perché i fiammiferi non hanno più questo odore? Già, cos’è successo? Il progresso, l’evoluzione, la catastrofe hanno lasciato il segno anche su di voi, fiammiferi? È la ricerca della novità o la mancanza di tempo il motivo per cui oggi siete fatti di materiali diversi, così freddi? Dov’è andata la vostra anima? Ne avete una nuova? Non mi pare. Sono troppo vecchio per catturare con avide narici lo spirito delle cose, come una volta? Oh, benedetta fragranza dei sedili di pelle delle carrozze, baciati dal sole! Il sole ardeva, una polvere sottile copriva la strada, dal terreno saliva odore di erba secca. La processione del Corpus Domini era passata di lì. (…) Anche l’aria aveva un profumo delizioso, in certe giornate d’inverno. C’entrava anche la varietà di carbone. Avevo individuato tre aromi, cui avevo dato un nome: Canzone senza parole, Sonate pathétique e Botteguccia. Oggi penso che il carbone venga dalla Slesia e odora semplicemente di carbone. Il carbone della Slesia è neutro. All’epoca poteva arrivare da Cardiff. Forse in Inghilterra sa ancora di Canzone senza parole. (…) È finita, penso. Ormai si usano nuovi materiali. In tempo di guerra, quelli vecchi sono stati sostituiti da altri, più economici. E poi sono rimasti. È il progresso. Un mondo è scomparso e non tornerà mai più indietro. Mai. Da un punto di vista economico, non è importante che l’aria invernale sappia di Sonate pathétique. L’erba secca è solo paglia, si dà da mangiare al bestiame. E non si può più usare il fosforo per fabbricare i fiammiferi» [Berliner Börsen-Courier, 10 agosto 1927].
 
Nel 1930 uscì il film muto Uomini di domenica (Menschen am Sonntag) di Robert Siodmak ed Edgar G. Ulmer, cui Billy Wilder aveva collaborato in veste di sceneggiatore: nonostante una lavorazione disorganizzata e rocambolesca, la pellicola ottenne un inaspettato successo. «Per nove mesi abbiamo lavorato al nostro film. Nove mesi d’inferno. Nove mesi bellissimi. “Dobbiamo farlo a tutti i costi!”. Un ometto salta su come un indemoniato e dà un pugno al tavolino, facendo tremare i bicchieri. È Moriz Seeler. Siamo cinque. Eugen Schüfftan, inventore di non so quale effetto speciale fotografico famoso in tutto il mondo, ma che non ho ancora capito, lo guarda a bocca aperta: “Senza soldi?”. “Senza soldi!”. Il terzo uomo, Robert Siodmak, che viene da Dresda (esperienze nel giornalismo, nel teatro e nella distribuzione cinematografica), non riesce a non scoppiare a ridere: “Senza uno studio?”. “Senza uno studio!”. “Ma come, così?”. A porre la domanda è il ventitreenne Edgar Ulmer, che sei mesi fa è arrivato da Hollywood, dove ha lavorato come scenografo per Aurora di Murnau. “Proprio così”. Io, Billie Wilder, sono il quinto. “Allora si parte?”. “Esattamente. Senza studio e senza soldi”. Ed è così che nasce il Filmstudio. Al tavolino di un caffè, nel giugno 1929» [Der Montag Morgen, 10 febbraio 1930].
 
«Per ora tutto quello che abbiamo è una macchina da presa. Che cosa vogliamo farci? Abbiamo cento idee e altrettante proposte. Si parla di gag. Abbiamo l’impressione di essere in sintonia. E a un tratto la cosa prende forma: sarà un documentario molto semplice. Un film su Berlino, sulla sua gente, sulle cose di tutti i giorni che conosciamo tanto bene. Per prima cosa pensiamo agli interpreti. Giovani che devono essere autentici. Ci guardiamo attorno. (…) Nel frattempo si abbozza la sceneggiatura. Sei pagine dattiloscritte. Troviamo l’escamotage: concentrare Berlino in una domenica. Ma i soldi, i soldi! Non abbiamo pellicola. Dopo qualche settimana riusciamo a tirare dentro uno dei finanzieri della Friedrichstraße. Lo inganniamo a suon di cifre. (…) Ci vengono consegnati i primi mille metri di pellicola. Possiamo partire. E partiamo alla grande! (…) In un modo o nell’altro portiamo a termine le riprese. Nessuno ci crede ancora. In Friedrichstraße, dove hanno sentito parlare della cosa, si sbellicano dalle risate. Noi ce ne stiamo tranquilli e cominciamo il montaggio. Abbiamo usato diecimila metri di pellicola. Dio sa dove abbiamo trovato i soldi. L’11 dicembre il film è finito. (…) Arriva il giorno della prima. Quando salutiamo il pubblico con un inchino, alle 21, non sappiamo che cosa stia succedendo. Ci prendono sul serio o è uno scherzo? In ogni caso, tra le 21 e le 21.13, con il cuore che batte a mille, ci è venuta un’idea per un nuovo film» [Der Montag Morgen, 10 febbraio 1930].
 
«In Francia la gente compra in massa libri economici stampati su carta igienica o su carta così dura che si potrebbe usare per uccidere qualcuno. Basta che costi poco. Invece i tedeschi scelgono i libri con la stessa serietà con cui comprano una camicia. Per prima cosa deve essere durevole. Non intendono lasciarli in treno o buttarli via come il giornale del giorno prima. Devono resistere alla sfida del tempo. Come i mobili. E avere un certo sfarzo. In Germania i libri sono più belli delle camicie. Basta confrontare le vetrine delle librerie con quelle dei negozi di abbigliamento» [Der Querschnitt, 2 marzo 1930].
 
«È (…) questa la maggiore differenza tra la moda inglese e quella francese, americana o italiana. Gli inglesi ordinano dieci vestiti e cinque paia di scarpe alla volta. Capito? Si cambiano tutti i giorni, sono sempre eleganti, e non pensano più a sarti e calzolai per cinque anni. Gli americani si comprano un vestito nuovo a ogni cambio di stagione, se lo mettono tutti i giorni e dopo sei mesi lo buttano nella spazzatura. Gli inglesi fanno lo stesso con i cappelli e tutto il resto. E seguono le mode, per quanto si possa parlare di mode. Oggi le giacche devono avere quattro bottoni, i soprabiti devono avere il colletto di velluto e alle scarpe non devono mancare perforazioni decorative; domani sarà obbligatoria la paglietta con il nastro verde, e la cintura si porterà cinque centimetri sopra l’ombelico. Cosa non si fa per gli affari. Lo stesso vale per la moda francese, quella italiana o qualunque altra. Mentre l’inglese elegante si contraddistingue per due cose: è pratico e non dà nell’occhio. I suoi vestiti devono essere delle stoffe migliori, le sue scarpe della pelle più resistente e le sue camicie di pura seta. Il prezzo alto è sinonimo di qualità, la qualità di lunga durata, e ciò che dura a lungo non si paga mai abbastanza» [Die Bühne, 11 febbraio 1926].
 
«Siamo pro o contro il jazz? È la musica più moderna di tutte? È Kitsch? È arte? È una necessità. È un modo per far scorrere nuovo sangue nelle sclerotizzate arterie europee» [Die Stunde, 29 giugno 1926].
 
«Chi è il Principe di Galles [il futuro re Edoardo VIII – ndr]? Un funny boy, un tipo chic. E com’è la vita a corte? Ne è stufo marcio. Quanto lo annoia Buckingham Palace! Per non parlare del castello di Windsor. O di Marlborough House. O di Osborne House, la residenza estiva sull’Isola di Wight. O del castello di Balmoral, in Scozia. Allora, come si sente the world’s most popular young man, il giovanotto più popolare del mondo? Tediato a morte e profondamente infelice» [Berliner Börsen-Courier, 31 agosto 1927].
 
«Il seduttore scompare dopo la vittoria. Le donne maledicono l’ora in cui è nato, certo, ma ciò che spiace loro non è che sia arrivato, ma che se ne sia andato» (Claude Anet).
 
Nell’agosto 1929, Billy Wilder definì la Coca-Cola «una bibita che sa di pneumatici bruciati ma che si dice sia molto rinfrescante».
 
«Bei tempi, quelli dell’inverno del 1926. Facevo il ballerino a pagamento in un hotel di Berlino. (…) Accanto a una donna affascinante sedeva un giovanotto magro e timido che guardava con aria abbacchiata prima il pavimento e poi le luci. (…) La coppia tornava spesso. Io ballavo con la signora, sotto gli occhi trepidanti del suo accompagnatore. Una volta, mentre mi aggiravo nell’atrio, venne verso di me. Temevo mi volesse dare una mancia, cosa che da lui mi sarebbe spiaciuto accettare. “Mi scusi…”, esordì timidamente. “Volevo chiederle… Fare il ballerino a pagamento, ecco, mi sembra… interessante”. “Per niente”. Dietro i suoi occhiali scorsi i suoi occhi febbrili. “Certo, ma… scusi se glielo chiedo… ma come si fa a diventare ballerini a pagamento?”. (…) Che cosa puoi fare, se ti butta male? Se non puoi rivoltare colletto e polsini? Se d’inverno non puoi passare la notte su una panchina del parco? Se ti riduci a prendere a credito tre bottiglie di vino solo per vuotarle nel canale e rivendere i vuoti, perché i panini costano? Il mio interlocutore trovò tutto questo molto interessante. “Perché non prova a metterlo giù, esattamente come me l’ha raccontato? Poi trovo io il giornale dove pubblicarlo”. Scrivere… una volta ci avevo provato, ma volevo fare un altro tentativo. “Venga a trovarmi, la posso aiutare”. E mi diede il suo indirizzo, una strada di Charlottenburg. “Di chi devo chiedere?”. “Di Klabund”. Nei giorni successivi, il maestro di charleston non si fece vedere al Grunewald. Il direttore di sala russo sputava bile. Semplicemente, mi ero licenziato. A casa, passai tre notti a raccontare le esperienze delle mie gambe. Poi portai tutto a Klabund. Scoprii che la signora con cui avevo ballato il tango era Carola Neher, sua moglie. Il mio memoir mi parve alquanto patetico, ma Klabund lo apprezzò. (…) Il Berliner Zeitung pubblicò il mio memoir di ballerino a pagamento» [Tempo, 12 agosto 1929].
 
«Che cosa serve per fare un film
   Film giapponese
1 Fujiyama. 7 ciliegi in fiore. 11 fiori di loto. 1 gelsomino (profumo). 1 consolato americano. 1 console americano. 1 figlio del console americano. 1 figlia del proprietario di una piantagione di tè. 1 giapponese strabico. 8 facchini giapponesi. 1 giunca. 1 motoscafo. 1 salvagente. 1 piroscafo in partenza per gli Stati Uniti. 1 luna piena sull’oceano. Titoli: Quando cadono i fiori di ciliegio; Vendetta gialla; Fiamme a oriente; Occhi a mandorla.
   Film spagnolo
1 arena. 7 toreri. 1 torero elegante. 125 metri di scialli rossi. 8 buoi. 1 fabbrica di sigarette. 1 rammendatrice povera. 1 spagnolo ricco. 1 bettola malfamata. 3 banjo. 1 tango. 1 rosa. 2 coltelli. 1 prigioniero moresco. 1 scala di corda. 1 cavallo per due persone. 18 metri di Pirenei. 1 guardia di confine. 1 abate. Titoli: Cecilia, il fiore dei Pirenei; Lo scialle scarlatto; L’arena insanguinata; L’ultima passione di don Alfonso.
   Film francese
1 Montmartre. 1 mansarda lercia. 3 vetri rotti. 1 pittore americano squattrinato. 1 monte di pietà. 1 tempesta di neve. 14 metri di Champs-Élysées. 1 graziosa modella francese. 1 bettola. 3 apaches. 1 apache innamorato. 1 ballo. 1 sguardo. 1 fogna. 1 grata difettosa. 1 eredità. 1 mostra di pittura. 1 premio. 1 uomo arrivato. 1 Notre Dame. 1 cartello “Tre anni dopo”. 1 Bois de Boulogne. 3 bambini che giocano. 2 teneri genitori. Titoli: Le catacombe di Parigi; Le bettole di Montmartre; La lampada e la falena; La legge dell’amore.
   Film americano
1 miliardario. 1 figlia del miliardario. 1 villa. 1 piscina. 1 gentiluomo baffuto con i capelli neri. 1 ranch. 2 cavalli “veloci come il vento”. 1 lazo. 1 burrone. 1 pozzo di petrolio. 3 revolver. 1 scazzottata. 1 inseguimento. 4 revolver. 1 Pacific Express. 1 pugno nello stomaco. 17 manifesti “Vivo o morto”. 2 revolver. 1 albero di lillà. 1 cupido impertinente. Titoli: La maledizione del re del petrolio; Passione sotto la cenere; La morte corre sul Pacific Express; Evelyn, la fuorilegge gentildonna» [Die Bühne, 25 febbraio 1926].
 
«Al Theater am Schiffbauerdamm, L’opera da tre soldi è arrivata alla cinquantesima rappresentazione. Il perdurante successo si spiega con la fusione di umorismo sfacciato e di critica sociale, cui si unisce la musica di Kurt Weill. (…) Era la cinquantesima replica, ma dagli applausi sembrava di essere alla prima» [Berliner Zeitung am Mittag, 22 ottobre 1928].
 
«Verso la fine della sua vita, dopo avere accumulato sei Oscar, Wilder disse al suo biografo tedesco che ciò di cui era più fiero non erano i premi, ma il fatto che il suo nome fosse apparso due volte nel cruciverba del New York Times – “una volta il 17 orizzontale e una volta il 21 verticale”» (Noah Isenberg).
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