Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  gennaio 19 Giovedì calendario

Intervista a Phippe Claudel - su "Dopo la guerra" (Ponte alle Grazie)

La Germania vista da vicino, dalla Lorena, la regione francese a lungo contesa. Una sguardo di «attrazione e paura», spiega Philippe Claudel, scrittore, regista e segretario dell’accademia Goncourt, nato 60 anni fa in un paese a pochi chilometri da Nancy: «La Germania è sempre stata per me uno specchio in cui mi vedo, non quale sono, ma come sarei potuto essere».

Domenica il cancelliere Olaf Scholz arriva a Parigi per celebrare con il presidente Emmanuel Macron i 60 anni del Trattato dell’Eliseo (che sancì la riconciliazione tra i due Paesi), con la speranza di rilanciare una relazione che negli ultimi mesi si è fatta politicamente più difficile. Nel romanzo Dopo la guerra (Ponte alle Grazie) da domani in libreria, Claudel evoca il rapporto con il grande vicino a partire dall’orrore ineludibile del nazismo e dalla figura di Viktor, l’aguzzino che è il filo conduttore di cinque storie molto diverse.

L’esergo di Thomas Bernhard dà il tono: «La Germania ha un alito d’abisso». Il punto è la Germania, non solo il nazismo.

«Ho cercato di immaginare come donne e uomini possano continuare a vivere e costruire dopo avere attraversato un evento traumatico come la guerra. E sul rapporto tra Germania e nazismo c’è quella frase nota, “non tutti i tedeschi erano nazisti, ma tutti i nazisti erano tedeschi”».

Da cui la paura.

«C’è un fatto irriducibile: il nazismo è una creazione della Germania, della cultura, della politica e del pensiero tedeschi, e ha permeato questa società per quasi vent’anni, dalla fine degli anni Venti fino alla Seconda guerra mondiale e oltre, poiché una nostalgia del nazismo è rimasta presente più a lungo».

E adesso? Qual è lo sguardo verso il nazismo oggi?

«Ora mi pare che in Germania e altrove si assista a una sorta di diluizione della tragedia, non c’è più la percezione del nazismo che poteva avere la mia generazione, quella dei figli di chi ha vissuto la guerra. Oggi ci si rapporta al nazismo come a un evento remoto, come se fosse la guerra dei Cento anni. Ma il grande interrogativo resta».

Quale domanda è insoluta?

«Come questa spaventosa macchina per uccidere sia potuta nascere in uno dei Paesi più avanzati del mondo, all’avanguardia nell’arte, nella filosofia, nella poesia. È una grande lezione della storia: i popoli colti non sono per forza al riparo dal caos. Sono questioni che mi sono sempre posto, senza avere le risposte. Ma questo libro mi permette ancora una volta di pensarci».

Perché la Germania è così importante per lei?

«Sono un grande lettore della letteratura tedesca, innamorato della pittura romantica tedesca, dei movimenti fantastici tedeschi, adoro le città tedesche e pure la lingua, che ho studiato a lungo. Forse anche per la vicinanza geografica, sono nato in Lorena e ancora ci vivo, sento una grande attrazione e simpatia per la Germania, simpatia nel senso di risonanza. E poi, siccome sono un uomo del XX secolo, resta la constatazione che la più grande catastrofe è nata in Germania».

Un’ambivalenza evidente nella prima storia, «Ein Mann», nella quale il lettore comincia a immedesimarsi nel protagonista in difficoltà, prima di scoprire una realtà terribile.

«Prendete ogni singolo essere umano, ogni soldato coinvolto in un conflitto. La maggior parte di loro non sono mostri, ma mariti, fidanzati, figli, padri, soffrono come i nemici dall’altra parte. Questo è apparso chiaramente nelle trincee della Prima guerra mondiale. Ma nella Seconda alcuni di questi uomini erano al servizio di un regime spaventoso. Molti di loro hanno vissuto ancora, dopo la guerra».

Come quell’anziano nella casa di riposo, dopo la caduta del Muro, assistito da una ragazza che si chiama Irma Grese come la torturatrice di Auschwitz.

«E quella ragazza a sua volta maltratta e tortura, senza neanche rendersene conto, il povero vecchio. Una figura che fa tenerezza, ogni lettore avrà un nonno o un parente che non è più autosufficiente. Ci si immedesima nel povero vecchio».

Solo che poi il vecchio canticchia con un filo di voce «La SA marcia a passo calmo e fermo».

«L’inno delle camicie brune. Dopo la guerra molti aguzzini nazisti hanno continuato a vivere e lavorare, seppellendo una vita precedente che torna in superficie, un istante prima della fine».

Come mai ha scelto questa forma inusuale, cinque storie separate tenute insieme dalla figura di Viktor?

«Ho pensato di riunire questi testi, che possono essere letti in modo indipendente, per chiamare il lettore a svolgere un ruolo più attivo. Viktor è un ritratto da completare».

Un’altra delle storie, «Gnadentod» (morte misericordiosa) è un’ucronia su Franz Marc, il pittore espressionista.

«È un testo scritto su commissione di Nicolas Ehler, direttore del Goethe-Institut di Nancy, che invitava a immaginare una vita diversa per un personaggio storico. Franz Marc è morto nel 1916 a Verdun, ma nel mio testo sopravvive fino al nazismo e riceve la “morte misericordiosa” che Hitler aveva decretato per tutti i malati mentali. In tanti non hanno capito che “Franz Marc” è un testo di fantasia. Il che fa capire quanto sia facile riscrivere la storia, per personaggi come Trump o Putin ad esempio».

«Dopo la guerra» è dedicato a Luigi Spagnol, «amico e editore italiano».

«Luigi è scomparso pochi mesi prima che il libro uscisse in Francia. Ha pubblicato tutti i miei testi in Italia, e condividevamo lo stesso gusto per la letteratura, il cinema, la cucina, i vini. Significava molto per me».

Lei è anche segretario generale dell’Académie Goncourt che attribuisce uno dei premi letterari più prestigiosi al mondo. Quali sono i criteri che guidano le sue scelte?

«Dal 2012 a oggi ho letto centinaia di libri senza parametri di giudizio precostituiti. A posteriori, posso dire che non mi piacciono né i libri con una storia avvincente ma dalla scrittura piatta, né quelli stilisticamente interessanti ma con poco da dire. È una questione di equilibrio. Alla fine, quel che conta è l’essere sorpresi. L’unica differenza tra me e chiunque legga libri è che io ne leggo molti per il Goncourt, senza quell’opera di preselezione e candidatura che in Italia, per lo Strega, è svolta dalle case editrici».