la Repubblica, 19 gennaio 2023
Le foto mai viste del ghetto di Varsavia
Del ghetto di Varsavia finora abbiamo visto soltanto le foto scattate dai tedeschi. Quelle canoniche facevano parte del Rapporto Stroop :una cinquantina di immagini create dai fotografi nazisti dopo la sconfitta della rivolta, iniziata il 19 aprile 1943 e durata oltre un mese, la prima insurrezione armata (poche centinaia di ragazzi e ragazze contro gli eserciti di Hitler) nell’Europa occupata dai nazisti. Tra gli insorti, il comandante Mordechai Anielewicz morì suicida nel bunker di via Mila. Altri, sotto la guida di Marek Edelman e Zvia Lubetkin, riuscirono a fuggire, attraverso la rete fognaria, nella parte ariana della città.
E dal Rapporto Stroop (che doveva celebrare il trionfo delle armi tedesche) proviene la foto che tutti conosciamo: un bambino, calzoni corti, le mani alzate, ma anche un’altra, meno diffusa, di tre insorti, due donne e un uomo che con un’espressione di orgoglio e con il gesto di stringere la mano in pugno, guardano i loro carnefici. In ogni modo, per chi cerchi la documentazione visiva della Shoah, le fonti sono per lo più — forse al 90 per cento — quelle dei boia, e così noi oggi vediamo le vittime con gli occhi degli assassini. Diceva un grande storico dell’Olocausto, Christopher Browning, che sebbene guardare quelle foto ha un elemento di complicitàcon i carnefici, senza sapremmo molto meno delle vittime.
Ma ecco che, ad aprile prossimo, in occasione dell’Ottantesimo anniversario dell’insurrezione nel ghetto — nell’ambito di una mostra al Museo dell’ebraismo polacco Polin a Varsavia, curata da Zuzanna Schnepf Ko?acz e da Barbara Engelking, dal titolo Attorno a noi, un mare di fuoco — si potranno vedere delle immagini completamente diverse.
È di queste settimane la scoperta dei negativi delle fotografie, non scattate dai tedeschi. L’autore era un polacco che sotto l’occupazione faceva il pompiere e da sempre il fotografo dilettante. Si chiamava Zbigniew Leszek Grzywaczewski, è scomparso nel 1993 e le foto le ha ritrovate suo figlio Maciej. Stando all’edizione polacca del Newsweek che ha anticipato la storia si tratta di un rullino conquarantotto fotografie: trentatré raccontano la fine del ghetto. Le copie di una dozzina di questi scatti sono finite, anni fa e non si sa bene come, nel Museo dell’Olocausto a Washington ma sono state viste più che altro dagli studiosi.
Alcune immagini sono sfocate, altre sembrano come coperte da una materia granulosa. Paradossalmente, l’imperfezione tecnica (le foto sono state realizzate spesso di nascosto e in fretta) dà loro un’aura di autenticità. Nessuna posa, nessun gioco degli sguardi fra chi uccide e chi è destinato a morire.
In una si vedono persone portate all’Umschlagplatz, il luogo da cui partivano i treni merci per le camere a gas di Treblinka. I soldati tedeschi sono pochi. I deportati hanno addosso vestiti pesanti, qualcuno ha una borsa in mano, qualcun altro uno zaino sulle spalle, come se stesse partendo per un viaggio vero, verso un luogo vero. Un bambino si volta indietro, una donna guarda un soldato. Nell’angolo sinistro si vede un muro sbrecciato al centro in alto, un camion per trasporto delle truppe.
Osservando più da vicino si intuisce che le persone camminano velocemente e quel movimento (unito a ciò che sappiamo oggi) crea un’atmosfera di dramma, come se noi che guardiamo volessimo dire a chi cammina: fermati, resta con noi.
Poi ecco una foto non nitida come la precedente ma sfocata,in cui il centro dell’evento è ai margini e difficilmente visibile. A sinistra spunta un elmetto da pompiere, un collega del fotografo. Poi vediamo ufficiali e soldati nazisti con lo sguardo rivolto verso l’alto. Le divise dei tedeschi sono di ottimo taglio, gli stivali alti e, nonostante la qualitàdella foto, luccicanti. Dal linguaggio del corpo di due ufficiali si può capire che si divertono, uno accenna a un gesto della mano per indicare qualcosa a suo giudizio strano, comico. Da un balcone dell’edificio avvolto dalle fiamme, che i due stanno guardando, saltano delle persone. Da un’annotazione del fotografo polacco, sappiamo che si tratta di una famiglia «di cinque o sei persone». Cinque o sei. Raccontavano i sopravvissuti che nel ghetto non si vedeva il cielo, a causa del fumo. C’è una foto drammatica, che raffigura l’orizzonte: sagome degli edifici, un campanile (nel ghetto c’era una chiesa per i convertiti), fumo e oltre le sagome e il fumo, il chiarore delle fiamme che occupa quasi la metà dell’immagine. Quel chiarore rende la foto più simile a un’opera di fantasia che non a un documento. E anche questo è segno di autenticità.
Sulle macerie mai sgomberate del ghetto è stato costruito un nuovo e moderno quartiere: abitazioni razionali, ampie finestre e molto verde pubblico. Ma i fantasmi non smettono di emergere.