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 2023  gennaio 19 Giovedì calendario

Tutti si sono pentiti della Brexit



Si dice che Grimsby venne fondata nel XIII secolo da Grim, marinaio danese che si rifiutò di annegare il neonato del re. Oggi invece questa città inglese da 86mila abitanti, storica capitale portuale e della pesca del Regno Unito, tra ancore arrugginite, le case edoardiane, i vialoni dei docks, il fish&chips, la birra a 2,5 sterline al pub e una torre scarlatta ispirata alle repubbliche marinare italiane, è il simbolo della Brexit. E forse del suo destino.
Perché Grimsby intreccia tutti i bivi del Regno Unito post Unione Europea: nel referendum del 2016, qui il 70% dei cittadini votò per uscire dall’Ue. Eppure, Grimsby è sempre stata visceralmente laburista, almeno fino alle elezioni del 2019, quando i conservatori di Boris Johnson trionfarono al grido di “Get Brexit Done”, realizziamo la Brexit. Perché Grimsby, oltre a essere terra desolata nell’omonimo film con Sacha Baron Cohen, è un bastione dei “dimenticati” britannici che sette anni fa si vendicarono contro l’Ue e “l’establishment” britannico. Oggi ancora in molti non sono pentiti (“Almenonon ci sono più i polacchi a rubarci il lavoro”). Ma questo inverno è durissimo qui, con i livelli di delinquenza più alti del Lincolnshire.
A Grimsby, l’aspettativa di “vita in salute” degli uomini è crollata paurosamente: 65 anni nel 2011, 55 oggi. Quindici in meno del Berkshire e altre ricche oasi inglesi. Ora, il consorzio Icelandic Seafood, che processa pesce per tutta l’Inghilterra, ha mollato. «La crisi, il Covid e la Brexit, con i suoi costi e burocrazia, non ci permettono più di andare avanti», dice il presidente Bjarni Armannsson, «ci trasferiamo in Ue». Duecento posti di lavoro a rischio. La pesca è sempre stata il talismano nostalgico della Brexit, nonostante rappresenti lo 0,03% del Pil nazionale: meno dei magazzini del lusso Harrods a Londra.
Duecento chilometri più su, sempre sul Mar del Nord, c’è Blyth, altra enclave post operaia dove crebbe Mark Knopfler dei Dire Straits. Qui c’è appena stato un altro mesto annuncio per la “Global Britain” post Brexit: Britishvolt, la mega factory da oltre 4 miliardi di euro che avrebbe dovuto produrre batterie per auto elettriche, ha dichiarato tragicamente bancarotta. Migliaia di posti di lavoro in fumo, una mazzata ai sogni di ridistribuzione di ricchezzenel nord inglese come ricompensa per i “dimenticati” brexiter e soprattutto una premonizione devastante per il futuro del settore automobilistico britannico, fiore all’occhiello di Thatcher. Di simili impianti di batterie, nel Regno Unito oggi ce n’è solo uno (cinese), mentre l’Ue ne ha già 35 in programma. Mentre lo stabilimento automobilistico più grande è giapponese: la Nissan nella vicina Newcastle, che sinora ha resistito alle sirene della Ue.
Invece Kiran Tawadey ha dovuto farlo. Titolare della raffinata azienda di tè inglese Hampstead, esporta molto in Ue e Italia. Ora ci dice che «per evitare ritardi e costi doganali abbiamo dovuto aprire una sede in Europa. Noi ce lo siamo potuti permettere. Ma altre aziende più piccole? ». Del resto, gli investimenti tra Uk e Ue sono calati dell’8% dal 2016 nonostante il «fantastico» (Johnson dixit) accordo di libero scambio tra i due blocchi: l’export verso l’Europa è crollato, fino al 30%, dice la London School of Economics. L’intensità commerciale del Regno ha perso il 12% dal 2019, ossia due volte e mezzo rispetto ogni altro Paese G7. E per il think tank Centre for European Reform, a causa della Brexit il Regno Unito ha già bruciato il 5,5% di Pil: 40 miliardi di sterline.
Magari la Brexit sarà un successo in futuro. L’ultimo “unicorno” è quello della deregulation, “per rendere il Regno Unito appetibile agli investitori”. Perciò ieri il primo ministro Rishi Sunak ha promesso «un falò » di migliaia di leggi Ue per «liberare tutto il potenziale del nostro Paese ». Molti imprenditori temono invece il caos, perché li costringerà a un doppio regime di norme e standardper continuare a fare affari con l’Ue. Ed è innegabile che a oggi, dopo aver abbandonato il più grande e vicino mercato unico del mondo, la Brexit non funzioni: nel 2023 il Regno Unito sarà il Paese che crescerà meno nel G20 – Russia esclusa.
Ma se il partito conservatore non rinnega la Brexit per paura di rivolte interne, il Labour di Sir Keir Starmer ha il terrore di rimetterla in discussione, nonostante, secondo i sondaggi, mai i britannici siano stati così contrari all’uscita dall’Ue: quasi il 60%. Il dibattito ha dilaniato i laburisti negli anni scorsi, c’è da riconquistare i “dimenticati” che odiano Londra e dunque «non torneremo mai in Ue», giura Starmer. Avanti così, nonostante tutto. Lo storico Christopher Clark, come nel suo famoso saggio, forse li chiamerebbe tutti così: i sonnambuli.