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 2023  gennaio 19 Giovedì calendario

Le verità di Georg Gänswein

Non un solo Concilio ma due: «il Concilio dei padri e il Concilio dei media». Da cui gossip, libri, talk show e memoir. Non è soltanto la storia della Chiesa, come la illustrava Joseph Ratzinger in un discorso citato da Georg Gänswein in Nient’altro che la verità, ricordando la stagione del Vaticano II. È la storia d’ogni istituzione umana nell’età del villaggio globale, così battezzato negli anni Sessanta, quando Internet e i social erano ancora nel mondo della luna. C’è un concilio dei media (che elegge e abbatte le icone del giorno) per le religioni rivelate come per le monarchie, per i caudillos populisti come per le star del cinema: la storia, un tempo teatro delle «grandi questioni», scade a chiacchiericcio.
Monsignor Georg Gänswein, arcivescovo e prefetto della Casa Pontificia, segretario di Benedetto XVI prima da Papa in carica e poi da Papa emerito e dimissionario, è stato testimone della storia più mediatica e bizzarra capitata alla Chiesa dai tempi del «gran rifiuto» di Celestino V (Anno Domini 1294) e degli «antipapi», la cui specie (una specie guerriera) s’è estinta nel quattordincesimo secolo: le dimissioni d’un Pontefice, che si ritira a coltivare i suoi «amati studi teologici», e l’elezione d’un nuovo Papa, che deve distinguersi dal primo. Se ne distingue al punto che, dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo, Anno Domini 2015, dichiara che anche lui, per quanto Papa, mollerebbe uno sgrugnone a chi gli offendesse la su’ mamma, come Braccio di Ferro a Bluto e un vero credente agl’infedeli. Difficile immaginare il suo predecessore prendersi una tale licenza dai Vangeli, che non predicano sgrugnoni ma invitano a porgere l’altra guancia. Niente di strano. È lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. Cose che capitano quando impera il Concilio dei media, che mette in burletta gli eventi, intossicandoli, e anche i papi si mettono in posa, come i politici per i selfie.

Pur mantenendo sempre l’aplomb, anche Benedetto si è trovato a sbrigare affari molto complicati, da strillo in prima pagina: lo scandalo della pedofilia, la divulgazione di documenti riservati, la talpa dentro l’ufficio di Gänswein, le badanti infedeli. Fu «una delle pagine più nere per la nostra famiglia pontificia», scrive Gänswein. C’è l’affaire Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, che nel corso d’un viaggio a Pechino fornisce agl’«interlocutori» cinesi indiscrezioni circa la vita interna in Vaticano (tra le indiscrezioni: «il preannuncio della morte del Pontefice entro dodici mesi, probabilmente a causa di un attentato»). Salta fuori un «corvo», che parla in tv con la voce «modificata elettronicamente» e spiega d’appartenere a «un gruppo di dipendenti che vogliono far emergere la verità su oscure e scandalose vicende vaticane».
Non c’è documento riservato, vero o tarocco, ma specie tarocco, che non finisca subito nelle mani dei gazzettieri d’assalto, i quali si guadagnano notoriamente da vivere erigendo monumenti all’accusa senza prove. C’è anche la storia del Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che soffre di protagonismo e, invece di passare le carte e sbrigare gli affari correnti, vola in tutto il mondo e sfila, dicono, su ogni possibile passerella: Bertone è accusato d’aver coperto la pedofilia d’un sacerdote americano che aveva violato letteralmente centinaia di ragazzini, e persino di tenere nascoste le parti più inquietanti del Terzo Segreto di Fatima. Riprende quota, irrisolta e terribile, la scomparsa nel 1983 della quindicenne Emanuela Orlandi, vicenda che di nuovo batte un colpo in questi giorni, ieri a tormento di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, oggi di Francesco I.

Ratzinger spacca in quattro il capello teologico e intanto il Vaticano finisce in prima pagina, in prime time televisivo e nella stessa lista dei best seller in cui oggi troneggiano le pacchianate del Principe Harry e della sua signora. Da non poterne più. Suo mentore, oltre che suo predecessore, Wojtyla viveva nel mondo presocial, quando il populismo non aveva ancora trasformato in una sua creatura anche il giornalismo. A Benedetto XVI tocca l’età ingrata dell’informazione fai-da-te, quando fake news e pettegolezzi diventano d’un tratto più sexy e più attendibili delle notizie verificate. Ne approfittano i suoi nemici interni. Teologo à la page ai tempi del Concilio Vaticano II, Ratzinger passa adesso per reazionario. Per avere accreditato il cristianesimo all’Occidente capitalistico, per non aver accreditato il mercato e la ragion pura a Satanasso, Ratzinger perde punti in Vaticano e fuori.
Stanco, poco fotogenico, il bypass, salute precaria, detestato perché le novità e le riforme del Vaticano II sono finite nel frattempo sotto accusa per tradizionalismo continuato e molesto, Benedetto XVI medita e mette in pratica il gran colpo di scena. È una mossa, magari involontaria ma inconfondibile, da Concilio dei media: le dimissioni, il Papato a due e la coesistenza più o meno pacifica tra idee francamente contrapposte di Chiesa, l’una mistica, l’altra demagogica.
Benedettista duro e puro, ma diplomatico nato, Gänswein nega che Ratzinger abbia mai contestato rudezze, bicipiti, anticapitalismo e messaggi politicamente ambigui del nuovo Papa. Personalmente, però, non sembra amare molto Bergoglio. Questi, leggiamo, ricambia di cuore la sua antipatia emarginandolo dagli incarichi ufficiali e di prestigio e insomma «sgrugnandolo» un po’. Prefetto della Casa Pontificia, Gänswein viene degradato a «perpetuo» del Papa in pensione (come In nome del Papa Re di Luigi Magni, dove Carlo Bagno, attore compianto, fa da badante a Nino Manfredi, cardinale in disgrazia). Declassato, «tornai al Monastero», scrive Gänswein, «e durante il pranzo lo raccontai a Benedetto, il quale commentò, tra il serio e il faceto: “Sembra che Papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode!” Gli ho risposto, sorridendo anch’io: “Proprio così… ma dovrei fare il custode o il carceriere?”»
Tra Benedetto e il suo successore ci sono divergenze, che le gazzette amplificano e drammatizzano. Tra le grosse divergenze c’è che Francesco I è possibilista, in speciali circostanze, col matrimonio dei sacerdoti, mentre il vecchio Papa no. Sempre tra le grosse divergenze ci sono i contraccettivi e l’omosessualità: Francesco, qui, è più liberale di Benedetto. Tra le piccole divergenze c’è l’uso del latino nei documenti ufficiali della Chiesa: Ratzinger lo difende, Bergoglio ci ride sopra. A Ratzinger piacciono le storie di Don Camillo e Peppone. A Bergoglio chissà.
Ma ribadiamolo: la cosa più strana, in fatto di divergenze, è che Bergoglio, considerato un progressista, difenda cause reazionarie, come ai tempi di Charlie Hebdo, o come quando accusa la Nato d’abbaiare alle porte di Mosca, mentre Ratzinger, che passa da «destro» e da reazionario, combatte in genere le «buone battaglie» progressiste, come quando difende la ragione illuminista dai suoi nemici, o quando spiega che l’uomo viene prima della natura e che il «nuovo panteismo» ecologista, con «i suoi accenti neopagani» è pericoloso, com’è pericolosa anche l’idea opposta, che non sia la natura a decidere l’identità umana ma il capriccio (o per meglio dire il pregiudizio) gender. Misteri. Dolorosi o gaudiosi, secondo i gusti. Ma misteri.