La Stampa, 19 gennaio 2023
A Teheran vita e morte in 15 minuti
Ventiseimila giorni è il tempo concesso a un uomo dalla vita media per rivelarsi, giustificare la sua esistenza, darle un senso o almeno provarci, amare, lottare, riprodursi o, se proprio non riesce in altro, sprecarsi. Quindici minuti è quello concesso in extremis a un imputato che rischia la condanna a morte davanti a una corte di cosiddetta giustizia in Iran. Lo racconta la Bbc ricostruendo le fasi finali del procedimento contro Mehdi Karami, 22 anni, campione di karate, impiccato il 7 gennaio scorso.
Quindici minuti. È il lasso in cui, secondo una frase comunemente attribuita a Andy Warhol, a ciascuno sarà consentito di essere famoso nel mondo. E Karami lo è diventato, per le ragioni sbagliate.
Quindici minuti. È la durata del tempo supplementare di una partita di calcio. In questo caso non il primo, il secondo, dopo che nel precedente quarto d’ora si sono subiti tre gol e il risultato è segnato, ma si gioca lo stesso. È facile immaginare i giudici annoiati, l’avvocato d’ufficio che pensa al pranzo o alla cena, la pubblica accusa che segna una tacca sulla propria agenda, a inizio 2023; altre seguiranno.
Quindici minuti è la dimensione spazio-temporale di una città ritenuta ideale, racchiusa in un diagramma circolare, in cui ogni cosa essenziale possa essere raggiunta entro quel limite massimo. La distanza tra un’aula di tribunale e la casa a cui tornare libero o il carcere nel cui piazzale essere giustiziato. A Teheran la freccia indica una sola possibile direzione.
Quindici minuti. Il tempo di un Ted Talk per esporre un’affascinante teoria innovativa. Di un colloquio di lavoro, in cui convincere un responsabile delle risorse umane che si è quella che stava cercando. Di vicinanza a un affetto da Covid che provoca il contagio secondo i criteri dell’obsoleta applicazione Immuni.
Può essere anche il tempo necessario per esporre la propria innocenza, convincere una giuria, diffondere concetti come libertà e giustizia? Non certo in Iran, non adesso. Non nei tribunali dei regimi in cui i giudici entrano avendo in tasca una sentenza già scritta e nessuna sentenza già scritta può essere giusta, nemmeno contenesse la verità dei fatti. Quei minuti non servono per rivolgersi alla corte e neppure al pubblico (il più delle volte composto da guardiani dell’autorità). Diventano un testamento, un atto che si spera trovi qualche notaio disposto a divulgarlo perché arrivi. Non dovesse, resta la funzione principale: affermazioni per la propria coscienza, un soliloquio finale prima che la luce si spenga, quello in cui un uomo non può mentire a se stesso e pesa la sua esistenza oltre i 21 grammi dell’anima che se ne va. In definitiva, un mezzo di autorappresentazione: nudi all’estremo specchio.
In Russia è quasi un genere. L’ultima dichiarazione è concessa a tutti gli imputati prima che possano inevitabilmente passare alla condizione di condannati. In un libro dal titolo «Proteggi le mie parole» (citazione dal poeta Mandelstam) sono raccolte le frasi pronunciate in 25 circostanze del genere dal 2017. Non c’è alcuna autodifesa: «Non sono un santo, ma da bambino ho imparato a non dire bugie e qui ho ascoltato calunnie senza pudore», Ilja Sakurskij. Semmai fierezza: «Non ho paura di criticare lo Stato, la sola paura è non farlo, è se nessuno lo fa», Svetlana Prokopeva. Sfida: «Che ognuno faccia la sua scelta, restare nel lager e seguirne le regole o lasciarseli alle spalle, lager e regole», Maria Alechina, delle Pussy Riot. Certezza: «La guerra è figlia della tirannia, chi vuole combattere la guerra deve solamente combattere i tiranni», Aleksei Nanalny, citando Tolstoj, sovrastato invano dalla voce dei giudici. E un biglietto per il futuro imminente: «A questa corte auguro la saggezza. A tutti coloro su cui si abbatterà la nuova ondata di repressioni auguro di resistere», Aleksei Gorinov.
Probabilmente non sapremo mai che cosa abbiano detto Karami e i suoi «fratelli». Se le torture li abbiano fiaccati al punto da rinunciare e tacere, se addirittura si siano sottomessi alla farsa o se abbiano trovato la forza di usare qui 15 minuti non per difendersi, ma per accusare. A tutti soccorra una delle più famose ultime dichiarazioni della storia (anche di quella del cinema). La rese il 9 aprile del 1927, prima di essere condannato a morte da un tribunale americano, Bartolomeo Vanzetti: «Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della Terra, ciò che ho dovuto soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un’altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso, per le mie idee…ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora».