il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2023
La legge Ronchey ha funzionato? (Pare di no)
Governo Amato 1, gennaio 1993, ministro dei beni culturali e ambientali il “tecnico” Alberto Ronchey, giornalista noto e rispettato. Cocktail perfetto per far approvare al Parlamento, come “misure urgenti per il funzionamento dei musei, delle biblioteche e degli archivi statali”, la legge che avrebbe rivoluzionato la gestione del patrimonio culturale italiano: avvenne, all’unanimità.
Trent’anni fa, il 14 gennaio 1993, nasceva la legge Ronchey che si poneva tre obiettivi: normare i servizi aggiuntivi degli spazi culturali (caffetteria, librerie, guardaroba…), esternalizzare quegli stessi servizi ai privati e regolare l’impiego di volontari “a integrazione del personale della Pubblica amministrazione” negli istituti statali. Quella rivoluzione si è allargata negli anni seguenti, ma pochi bilanci sono stati fatti: la legge Ronchey ha funzionato?
“Intatto è il valore culturale della legge, l’aver introdotto l’idea che anche nei beni culturali ci possa essere spazio per l’impresa, per l’aiuto dei privati” spiega Umberto Croppi, direttore generale di Federculture, la Federazione delle imprese del settore. Ma la prassi, che ha superato i dettami della legge, non lascia indifferente neppure lo stesso Croppi. Rispetto a quanto era previsto nel 1993, negli anni seguenti è stato esternalizzato tutto, non solo i servizi “aggiuntivi”: biglietterie, servizi bibliotecari, pulizie, cassa, didattica, la gestione stessa di alcuni luoghi. Esattamente come chiedevano i portatori di interesse nei primi anni 90: senza esternalizzazione dei servizi di biglietteria e sorveglianza “la privatizzazione rischia di non poter essere attuata in alcun modo”, dichiarava allora Confcooperative. Lo si è fatto seguendo il criterio del massimo ribasso (l’“offerta economicamente più vantaggiosa”): in un settore a basso valore aggiunto, l’unico modo che ha un’azienda per guadagnare è risparmiare sul lavoro. Pochi sono i dati su questo esercito di lavoratori esternalizzati (si possono stimare almeno 15 mila persone in Italia), i più recenti dei quali sono stati presentati ieri alla Camera: il contratto Federculture, creato negli anni 90 per questa nuova realtà di esternalizzazioni culturali, è applicato approssimativamente nel 6% dei casi.
A sorprendere però è il fatto che la legge sembra aver fallito proprio nella sua finalità principale, quella di favorire la creazione di servizi “aggiuntivi” che arricchissero l’esperienza di visita o fruizione di biblioteche e musei. Su oltre 500 musei statali, nel 2019 le caffetterie aperte erano 21, i bookshop 83, le audioguide disponibili in 49 siti. In quasi 400 musei statali non esiste un sistema di prenotazione. Nel 2006 i servizi attivi erano di più: 30 caffetterie, 96 bookshop, 132 musei con prenotazione. La causa di questo trend è intuibile. Le aziende non hanno convenienza a investire senza un ritorno sicuro e lo Stato, o l’ente locale, non ha convenienza a investire per creare spazi che poi porteranno vantaggi ad altri. Nel 2019, picco dei visitatori, su 69 milioni incassati dai servizi “aggiuntivi” solo l’11% è andato al MiC, il resto alle aziende in appalto e concessione. Ma oggi l’amministrazione pubblica non può gestirli direttamente. Secondo Croppi serve un cambio di visione: “Questi servizi non servono allo Stato per incassare, ma a offrire qualcosa di più. In questo senso l’aggiudicazione al massimo ribasso e il ricorso ad appalti brevi è deleterio, non permette una crescita della qualità”. La durata degli appalti varia, dal 4+4 usato ad esempio al Colosseo, dove l’aggiudicazione di una gara del 1996 ha portato a proroghe che durano fino a oggi, agli appalti di 12 o 24 mesi che da anni adottano i musei ministeriali lombardi, con lavoratori che – in barba ai regolamenti – tengono aperti da soli musei statali per 5,5€euro l’ora lordi. I servizi ad alto rischio di impresa (come la caffetteria) vengono accorpati a quelli che offrono certezze, come la biglietteria: format che snatura l’idea di servizio aggiuntivo, crea cartelli di imprese e spinge a privatizzare anche ciò che potrebbe essere gestito internamente.
Eppure nessuno è riuscito a intaccare questo sistema: né l’ex ministro Pd Dario Franceschini, nonostante le intenzioni dichiarate, né il M5S, che pur lo aveva promesso. La palla è ora all’attuale maggioranza.