il Giornale, 18 gennaio 2023
Il 1938 raccontato da Marina Valensise
Il 1938 fu per l’Europa l’ultimo anno di una pace fittizia. Alla fine dell’inverno ci fu l’annessione dell’Austria alla Germania, all’inizio del successivo autunno quella dei Sudeti, un territorio divenuto cecoslovacco dopo la Grande guerra, ma fortemente tedesco quanto a popolazione. La Conferenza di Monaco, con cui le potenze occidentali riconobbero le richieste territoriali hitleriane, scongiurò il paventato ricorso alle armi, ma tempo ancora un anno e l’Europa andò a ferro e a fuoco: patto di non aggressione russo-tedesco, aggressione delle Polonia...
Gli storici del dopo trovano nella storia una razionalità e un rapporto di causa-effetto che a chi la visse hic et nunc raramente appare come tale: speranze, illusioni, cecità e fraintendimenti ne fanno parte e la visione d’insieme è spesso parziale, viziata di egoismi non solo nazionali, ma individuali.
Nel suo Sul baratro (Neri Pozza, pagg. 204, euro 19), Marina Valensise sceglie quindici storie esemplari per cercare di raccontare quel 1938 in cui tutto parve cristallizzarsi in uno status quo e lo fa attraverso un viaggio in alcune capitali e città europee, da Vienna a Mosca, da Salisburgo a Lucerna, a Bruxelles, in compagnia, appunto, di un personaggio rappresentativo di quel clima, di quell’epoca, di quel luogo: scrittori, artisti, intellettuali, poeti. L’intento è da un lato dar vita a «un’unica storia d’Europa, una storia comune alle diverse nazioni che formano l’eredità di un continente», dall’altro di stabilire una sorta di parallelismo fra ciò che abbiamo sotto gli occhi adesso, l’invasione russa in Ucraina e il conflitto che ne è scaturito, e ciò che avvenne allora. È un parallelismo comprensibile nel suo valore di monito, ma ardito, non foss’altro perché nell’oggi c’è una presenza extracontinentale, gli Stati Uniti, che nello ieri ci mise tre anni prima di entrare in quella che era una guerra civile europea, il che falsa di per sé ogni prospettiva e ogni analogia. E va aggiunto che l’auspicio della Valensise nei riguardi di «un continente che ha prodotto le nazioni e oggi non deve morire di nazionalismi», ha una sua ragion d’essere a patto di non dimenticare che a scardinare le prime e a inquinare i secondi ci fu quel frutto profumato quanto velenoso dell’autodeterminazione dei popoli sancito dai fatidici quattordici punti wilsoniani all’indomani della Prima guerra mondiale che resero l’Europa un continente minato da rivendicazioni etniche che ne rendevano impossibile una lettura geopolitica.
Costruito in forma apparentemente rapsodica, il libro è comunque uno straordinario concentrato di vite e di luoghi, di biografie e di educazioni intellettuali, dove nomi illustri e famosi, Freud, Toscanini, Mandelstam, si intrecciano con nomi meno conosciuti, Mihail Sebastian, Licy Wolff, e lingue e culture più egemoni, il tedesco, l’inglese, il francese, a lingue e culture internazionalmente minoritarie, il rumeno, l’ungherese... Il tour de force è tanto più evidente e convincente se si dà uno sguardo alla bibliografia, in cui testi tradotti in italiano e testi nella lingua originale aiutano a capire l’operazione di scavo e di conoscenza condotta dall’autrice.
Per quanto sia il 1938 l’anno emblematico in cui la Valensise fa ruotare l’asse dell’intero volume, non sempre quella data coincide con la figura chiamata a raccontarlo. Dalla Vienna allora annessa al Terzo Reich, Stefan Zweig, per esempio, se n’è già andato in esilio quattro anni prima, come del resto Musil. Più in generale, e questo vale soprattutto per l’Urss, le sue capitali, Mosca, Leningrado, e i suoi scrittori, i Mandelstam e l’Achmatova presenti nel libro, l’orizzonte e il destino sociale, politico, umano sono radicalmente diversi da quelli che si respirano nell’Europa occidentale. Quegli scrittori, in breve, non hanno né il tempo né le conoscenze né la voglia per interrogarsi sui venti di guerra che percorrono il Vecchio continente, troppo presi come sono a sopravvivere, a fare i conti con il regime di casa propria che prima li incarcera, poi li deporta e nel mentre li assassina. Fra la primavera e l’estate di quel 1938, Mandelstam è in galera, all’inizio detenuto alla Lubjanka, poi alla Butyrka, l’antica fortezza zarista di Mosca, e infine morirà nei gulag. Quanto alla Achmatova, le hanno appena arrestato di nuovo il figlio, Lev Nikolaj Gumilev, così come diciassette anni prima le hanno fucilato il primo marito e più tardi faranno morire in Siberia il secondo. L’Achmatova sopravviverà come una sepolta viva. Dall’Urss non si fugge, non si può fuggire, non si spera di fuggire.
Nella disparità delle situazioni e delle geografie, c’è materia sufficiente per interrogarsi su grandezze e miserie umane, individualità e prese di posizione che quelle individualità dovrebbero e/o vorrebbero superare. Nella bella analisi che Marina Valensise dedica a Wystan Hugh Auden, si capisce per esempio che la campana «dell’impegno» può suonare a vuoto oppure emettere un suono falso. Negli anni Trenta Auden è stato per molti versi l’incarnazione di una generazione, la Auden Generation, appunto, dove il colore politico dominante è stato il rosso ideologico: è nella poesia Spain che si parla di poeti «rombanti come bombe» e della «consapevole accettazione della colpa di fronte al delitto necessario»... Una frase simile, dirà George Orwell, l’avrebbe potuta scrivere «solo una persona per la quale l’assassinio è al massimo una parola. Il tipo di amoralità di Auden è possibile soltanto se siete il genere d’uomo che si trova sempre in un altro posto nel momento in cui si preme il grilletto».
Parole profetiche: nel marzo 1938, Auden è in Cina, e ci resta sino a giugno, per rientrare in Europa sceglie la rotta del Pacifico, approda a Vancouver, fa sosta a New York. La Conferenza di Monaco del successivo settembre lo vede a Londra preparare i bagagli per emigrare negli Stati Uniti.
Un percorso simile, nel senso del disincanto, della difficoltà di aderire ad altro che a sé stesso, è quello intrapreso dall’italiano Alberto Moravia che, a differenza di Auden, ha però a che fare in patria con una dittatura e non con una democrazia parlamentare. La Valensise ne segue le tracce con intelligente partecipazione, ma ci dà anche uno spaccato della società italiana dell’epoca diverso dal cliché dell’antifascismo più o meno militante o più o meno egemone raccontatoci dal dopoguerra. Fondamentalmente, Moravia è un a-fascista, ma il suo libro d’esordio, Gli indifferenti, batte in breccia contro la società borghese e i suoi valori e/o disvalori, tanto quanto aveva fatto ideologicamente il fascismo, e se non si capisce questo, non si capisce nulla dell’appeal fascista e della sua idea di rivoluzione rispetto alla società liberale entrata in crisi con la Grande guerra. Negli anni Trenta, Moravia viaggia in lungo e in largo, scrive per i giornali di regime, dal Tevere di Interlandi alla Stampa di Malaparte, conosce a Londra quelli di Bloomsbury, ovvero il circolo intorno a Virginia Woolf, e li descrive come «un’aristocrazia annoiata e adulata», dedita al culto di sé stessa, scrive reportage dagli Stati Uniti e dalla Cina, mette in campo le sue amicizie e le sue influenze nel Partito fascista quando le leggi razziali gli si potrebbero rivoltare contro. Per quanto cerchi di sfuggire, come scrive la Valensise, «all’asfissia romana», di Roma ha sempre e comunque nostalgia, che se ne stia a Capri o ad Atene... Molti anni dopo, dirà a un suo biografo: «Aspettavo la guerra, insomma, che poi è naturalmente avvenuta», ma l’impressione è che l’aspettasse come si va alla stazione a veder partire i treni.
Al di là di qualche eccessiva semplificazione, definire Ardengo Soffici, nel 1938, un «futurista», il Mussolini dei Fasci di combattimento a cui aderirà Toscanini, «d’estrema sinistra», Sul baratro è un libro scritto e costruito con maestria. Ci sono figure femminili, come la Milena Jesenska, liberate dall’asfissiante retorica del suo legame con Kafka, e fatte risplendere della loro purissima luce morale; altre come l’irascibile e combattivo Toscanini, messe al centro di un dibattito, quanto l’arte, nella fattispecie la musica, debba essere separata dalla politica, tornato di questi tempi di attualità. «Chiunque diriga nel Terzo Reich è nazista» dirà Toscanini a Wilhelm Furtwängler: «Un artista non può dirigere un giorno in un Paese dove regna la dittatura e il giorno dopo in un Paese libero». La risposta del direttore tedesco è di natura opposta: «Gli esseri umani sono liberi, liberi ovunque si suoni la musica di Beethoven e di Wagner, e se non lo sono nei fatti, lo sono nello spirito quando ascoltano musica. La musica li trasporta in regioni dove la Gestapo non può sperare neppure un istante di entrare. L’arte appartiene al mondo intero».