La Stampa, 17 gennaio 2023
Intervista a Kevin Spacey
La folla dei personaggi che lo hanno reso leggenda aleggia, vivida, intorno alla figura di Kevin Spacey, un signore elegante dai modi gentili che prova a risalire la china dopo essere precipitato dall’altare alla polvere, senza nessuna, reale, speranza di poter compiere il percorso inverso. Osservandolo meglio, faccia a faccia, provando a dimenticare Frank Underwood e anche Keyser Söze, nell’incontro torinese che ha preceduto la consegna della "Stella della Mole", il premio attributo all’attore, tra mille polemiche, dal Museo del Cinema di Torino, presieduto da Enzo Ghigo e diretto da Domenico De Gaetano, si ha l’impressione di guardare negli occhi un magnifico incantatore di serpenti. Capace di tutto e consapevole di esserlo. Mentre tradisce un attimo di emozione parlando dell’amore per il suo mestiere, mentre allude al periodo nero seguito alle incriminazioni per molestie, mentre esprime tutta la sua gratitudine nei confronti di Franco Nero che lo ha diretto nel nuovo film L’uomo che disegnò Dio, nessuno si stupirebbe di veder ondeggiare un cobra sulla musica della sua voce: «Quello che vedete scorrere sui media non rappresenta necessariamente la realtà, è piuttosto il riflesso di un tic, della loro abitudine di riportare le notizie come se fossero assolute "prime volte". A Torino ho trascorso una settimana meravigliosa, ho incontrato tante persone che mi hanno dato un benvenuto caloroso, mostrandomi il loro affetto genuino, ma tutto questo fa parte della mia vita quotidiana, non ho vissuto nascondendomi e non mi sono chiuso in una grotta, ho continuato a stare in mezzo alla gente, a frequentare ristoranti, a guidare la mia auto, ad andare dove volevo, soprattutto ad avere rapporti con i miei amici e, per questo, mi sento molto fortunato». Al cinema Massimo, ieri sera, davanti alla platea gremita che batteva le mani, in prima fila il sottosegretario alla cultura Vittorio Sgarbi che nel pomeriggio gli aveva consegnato il premio del Museo, Spacey ha presentato American Beauty: «Se guardate bene il manifesto del film leggerete due parole, "Look closer". Ecco io vi auguro, nella vita, di guardare più da vicino, voi stessi e la realtà che vi circonda».
Pensa che questa fase, per lei, possa essere definita come un nuovo inizio?
«No, non direi, la mia esistenza è sempre andata avanti così, fin dai miei primi passi nel lavoro, quando nessuno mi dava credito e poi è successo che qualcuno abbia creduto in me e che, a seconda delle situazioni in cui mi sono trovato, mi abbia difeso o abbia anche lottato per me, aprendo la strada di altri contatti, altre occasioni».
Che cosa significa per lei essere attore?
«Recitare mi ha dato la possibilità di entrare nei panni di tante persone, di essere nella loro mente, di capire i loro problemi e i loro conflitti. Recitare è un’arte incredibile, permette di sviluppare empatia verso il prossimo, di imparare tantissime cose sulle sfaccettature dell’essere umano, fin da ragazzo ho desiderato proprio questo. Recitare significa stabilire rapporti familiari con i compagni di lavoro, e il premio ricevuto a Torino va anche a tutti quelli che hanno creduto nel mio talento e mi hanno guidato. Mi piace pensare di potermi ricongiungere a queste famiglie, non solo ai registi, ma anche ai tecnici e a chi ha contribuito alla creazione della mia carriera. Sono grato al Museo del Cinema che ha avuto le palle di invitarmi qui per questo premio».
Che cosa le è mancato del suo lavoro in questi anni di lontananza da set e palcoscenici?
«Nella vita capita a ognuno di vedersela con delle difficoltà e a ognuno, qualunque tipo di professione faccia, succede di doversi battere per realizzare i propri sogni. Amo l’essere parte di un gruppo che si incontra tutti i giorni e che crede nella storia che ha scelto di raccontare, sbagliando, ricominciando daccapo, imparando. La mia soddisfazione più profonda deriva dal rapporto con gli altri, dalla collaborazione, quando fai questo mestiere non sei mai solo ed è questa la cosa che mi piace di più, perché è così che puoi crescere e apprendere continuamente».
Che cosa ha significato interpretare una parte nell’Uomo che disegnò Dio?
«Sono incredibilmente grato a Franco Nero: il ruolo che ho nel film non è importante, quello che conta è la grande opportunità che mi ha offerto, quello che lui ha fatto per la mia vita. In una fase in cui tutti gli altri avevano paura, lui è venuto da me e mi ha dato la parte, indipendentemente da tutte le critiche. È stato un gesto notevole, per me come persona e anche come artista».
Che rapporto ha con i social, con Internet, con il mondo delle fake news?
«Non li uso, sono cose che hanno a che vedere con l’intelligenza artificiale, non sono un esperto, ma penso siano fenomeni che si auto-alimentano, non ho bisogno di fare commenti in merito».
Tra i suoi ruoli più applauditi c’è quello di Frank Underwood in House of Cards. Secondo lei Underwood può essere definito un precursore della politica dei nostri giorni?
«Sicuramente ha molti predecessori, basta andare indietro nel tempo per trovare figure che lo ricordano, penso all’Antica Roma e a Giulio Cesare che ha fatto anche lui una brutta fine. Di politici così, manipolatori e capaci di calpestare tutto e tutti, ce ne sono sempre stati. House of Cards si è avvicinato alla realtà della West Wing, l’Ala Ovest della Casa Bianca, ho sempre pensato che fosse particolarmente interessante poter descrivere il mondo della sinistra democratica americana. Sono grato a chi ci ha concesso di girare ben due stagioni della serie prima ancora del suo debutto. Con House of Cards è nata l’abitudine del "binge watching" (visione ininterrotta di una grande quantità di episodi, ndr). Ho amato quel periodo della mia vita, le risate, la gioia, la condivisione con i colleghi, ho ricordi bellissimi ».
Il tempo costringe tutti a cambiare, in che cosa si sente diverso rispetto al passato?
«Ha ragione, la vita inevitabilmente comporta mutamenti, ma è anche piena di benedizioni e di opportunità. Credo che, in certi momenti, sia necessario affrontare dei silenzi, perché è nel silenzio che possiamo trovare risposte e occasioni nuove per il futuro».
Ha mai pensato di scrivere un libro sulle sue memorie?
«Me l’hanno chiesto in tanti, ma, per il momento, non ho intenzione di farlo, non mi interessa. Lo farò, forse, quando ne avrò voglia, sarò io a decidere e sarà il momento giusto per farlo».
Che cosa la rende felice?
«Sono contento ogni volta che, nel corso della giornata, riesco a fare qualcosa di buono per un’altra persona, a farla felice. Sono tantissime le cose che mi rendono felice. I cani ad esempio, ho visto che a Torino sono un’infinità, forse ho salutato più cani che persone, e poi i bambini, con quel loro modo buffo di ridere e di conversare».
Se tornasse giovane che cosa direbbe a sé stesso, quali consigli si darebbe?
«Difficile rispondere, avrei da dire un sacco di cose, potrebbe essere un esercizio interessante. Forse che quando si è giovani e magari non si ha abbastanza esperienza, possono succedere delle cose, e che si impara man mano che quell’esperienza aumenta. Non so se io stesso, da giovane, farei cose diverse da quelle che ho fatto, cose che potrebbero cambiare il corso della mia vita».
Che fine ha fatto Keyser Söze?
«Prima di tutto non so di cosa stia parlando… e comunque non posso rivelare niente, però sono abbastanza certo che, prima o poi, si farà sentire».