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 2023  gennaio 18 Mercoledì calendario

Tutti gli affari di Matteo Messina Denaro

Matteo Messina Denaro non c’era. Eppure in questi trent’anni è sempre stato lì, nel solo posto dove un capomafia deve essere: il tavolo degli affari. Lo era con la faccia di un elettricista diventato uno degli uomini più ricchi d’Italia. Con quella di un operaio trasformatosi nel re dell’eolico o di un salumiere all’improvviso trasformatosi nel principe della grande distribuzione. I documenti della Direzione investigativa antimafia, le informative dei carabinieri del Ros, i lavori che in questi anni hanno svolto i poliziotti dello Sco e i finanzieri dello Scico raccontano infatti come il vero potere di Iddu in questi anni sia stato la capacità di mimetizzare non soltanto la sua faccia. Ma soprattutto il suo denaro. Cinque miliardi di patrimonio sequestrato a suoi prestanome e un tesoro ancora nascosto chissà dove — ci sono tracce che portano in Svizzera, altre in Sud America, alcune, come sempre, a pochi chilometri da Castelvetrano — e come — energie alternative, distributori di benzina, strutture turistiche, grande distribuzione — e che diventerà il centro della fase 2 della grande caccia: trovato il re, serve il tesoro.
I supermercati
Matteo Messina Denaro, raccontano gli appunti investigativi, in questi anni ha avuto un problema diverso rispetto all’immagine tradizionale dei boss mafiosi. Non tanto aumentare, con traffici illeciti, i propri capitali. Ma riciclare il tesoro guadagnato a cavallo tra gli anni 60 e 90 e che doveva continuare a fruttare. «Non esistono recenti indagini — fanno notare gli investigatori — che documentino suoi interventi diretti nel traffico di sostanze stupefacenti piuttosto che sulle estorsioni. Era Messina Denaro a offrire denaro per acquisire quote delle attività imprenditoriali. Non lui a chiederli».
Il canale forse privilegiato per il riciclaggio è stata in questi anni la grande distribuzione alimentare, storicamente un settore che si presta a lavare denaro sporco. Le indagini hanno appurato i rapporti tra Messina Denaro e Giuseppe Grigoli, il “re” dei supermercati Despar con la sua 6Gdo. Aveva 83 punti vendita tra le province di Trapani e Agrigento e un centro commerciale che, lo stesso Messina Denaro, avrebbe spesso frequentato.
«Il paesano mio» lo chiamava il boss in uno dei pizzini trovati nel covo di Provenzano l’11 aprile del 2006. Lo difendeva, infuriato, perché i capomafia di Agrigento si erano permessi di chiedergli il pizzo. «Prima, restituiscano i soldi, dopo gli amici di Agrigento mi dicono cosa vogliono dal mio paesano e io sono disponibile a sistemare il tutto. È ormai una questione di principio. Io ho fatto della correttezza la mia filosofia di vita», scriveva. A Grigoli sono stati sequestrati 700 milioni.
Il business dell’energia
«Questo signor Messina si è fissato con i pali della luce. Sempre queste minchie di pali» si lamentava Totò Riina in carcere confermando così a chi lo ascoltava che tra le migliori intuizioni, nel mondo degli affari, che Messina Denaro aveva avuto era quella di puntare prima degli altri sul business dell’energia. E, soprattutto, di quella pulita. «I pali della luce» a cui faceva riferimento Riina altro non erano che gli impianti eolici: la Dia è convinta che tracce del boss ci siano in decine di società con sede in paradisi fiscali che controllano le royalties prodotte dalle pale installate nella parte sud occidentale dell’isola. Probabilmente anche in quelle che fanno riferimento a Vito Nicastri, l’elettricista di Alcamo che nel giro di vent’anni ha messo su un impero. Tanto che la Dia è arrivata a sequestrargli 1,3 miliardi. Ma per Messina Denaro energia non è soltanto eolico. Ci sono diversi elementi per immaginare che il boss avesse puntato anche sulla benzina. Meglio, su quel gasolio di contrabbando che invade l’Italia evadendo le tasse (motivo per cui le accise non riescono a scendere) e alterando il mercato.
Il turismo
Nei carrelli del supermercato, dunque. Nella luce di casa. Messina Denaro non era da nessuna parte. Eppure era ovunque. Anche in vacanza. Secondo gli investigatori ci sarebbero stati anche i capitali del boss nell’ex Valtur, i luoghi del divertimento degli italiani, fiore all’occhiello del maxi patrimonio di Carmelo Patti, un ex muratore di Castelvetrano poi finito in disgrazia per un’evasione fiscale. Nel 2018 il tribunale ordinò la confisca del patrimonio di Patti, un ex elettricista della provincia di Pavia, ma di origini di Castelvetrano, diventato, quasi all’improvviso, uno dei cinque uomini più ricchi d’Italia. Quando la Dia mise a un miliardo e 8 del suo patrimonio, nel 2018, (inizialmente la richiesta della Procura era di 5: i suoi legali hanno sempre respinto tutte le accuse), furono messi sotto sigillo i villaggi turistici che avevano fatto sognare un’intera generazione di italiani oltre a una barca, un campo da golf, 232 immobili e 25 società.
La finanza
Messina Denaro, anche con gli affari, non ha dunque mai voluto abbandonare la Sicilia. Ma non ha mai smesso di guardare fuori. C’è un particolare, che hanno raccontato in queste ore alcune delle pazienti che erano in terapia con Matteo Messina Denaro, anzi con Andrea Bonafede, che ha fatto saltare sulla sedia gli investigatori: «Ci portava al bar a fare colazione. Offriva lui, pagando con un bancomat o una carta di credito ». Com’è possibile? Che istituto di credito l’aveva rilasciata? È l’input per riaccendere una vecchia pista: gli investigatori sono certi che parte della latitanza di Messina Denaro sia stata pagata grazie a capitali depositati su conti in Svizzera e direttamente riconducibile al boss. Ci sono i nomi di due possibili prestanome, i contatti con un vecchio mercante d’arte di Castelvetrano, e la certezza che avesse a disposizione linee di credito con molti zeri.
Le stesse che probabilmente sono dall’altra parte dell’oceano. In Venezuela, magari, dove sono documentati i suoi rapporti con i Cuntrera e Caruana. E dove c’è quell’allevamento di polli che, sulla carta, valeva cinque milioni di euro. Le galline dalle uova d’oro.