la Repubblica, 18 gennaio 2023
Nella testa di Matteo Messina Denaro
Seduto sulla brandina della sua cella, Matteo Messina Denaro trascorre molte ore con la testa fra le mani, fissando un punto sul muro davanti a lui. «Ditemi quello che devo fare e lo farò» dice agli agenti che lo sorvegliano. Sta realizzando dentro di sé che dovrà trascorrere molto tempo in quel posto in cui si trova e pensa pure alle regole che gli sono state impartite al suo ingresso. Ma quello che sembra farlo soffrire di più in queste prime 24 ore da detenuto è l’isolamento, il fatto che non c’è nessuno con il quale trascorrere la giornata. E nell’ora d’aria, in cui può andare a passeggiare lungo un corridoio protetto da muri alti più di cinque metri, si rifiuta di uscire perché da solo non vuole camminare.
Non è abituato, U siccu, a questa nuova vita da recluso. Ventiquattro ore in cella da solo, senza nemmeno accendere la televisione, anche solo per avere compagnia, o guardare quello che viene messo in onda su di lui e sul suo arresto. Nulla. Non ha la curiosità di vedere, di ascoltare ciò che viene detto sul suo conto. La tv resta spenta. E lui seduto sul letto con le mani a reggere il viso.
Nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila si è presentato con camicia e pantaloni di marche di lusso, con una cintura di pitone e stivaletti di pregio, il giaccone e il berretto in pelle. Un fisico asciutto, come se avesse frequentato quotidianamente una palestra che gli ha portato a tonificare i muscoli e a scolpire gli addominali. I carabinieri del Gis e del Ros lo accompagnano, senza manette, fin dentro l’ufficio della matricola del carcere, quello in cui il nuovo detenuto viene registrato.
E qui lo lasciano in consegna agli agenti del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. I carabinieri lo trattano come se fosse una statuetta di porcellana che cadendo potrebbe andare in frantumi. I militari che lo hanno arrestato lo guardano per l’ultima volta, e lo salutano: «Buona sera signor Matteo, noi andiamo via». Poche ore prima, all’aeroporto di Boccadifalco, U siccu davanti all’aereo che lo doveva
portare da Palermo a Pescara, come ha scritto ieri su Repubblica Salvo Palazzolo, all’improvviso chiede un foglio di carta e una penna, e scrive: «I carabinieri del Ros e del Gis mi hanno trattato con grande rispetto e umanità. Palermo, 16 gennaio 2023». E poi la firma.
È strano questo modo di comportarsi di Matteo Messina Denaro, perché in passato, altri latitanti come Salvatore Riina e Bernardo Provenzano o Giovanni Brusca e Pietro Aglieri, tanto per stare fra i corleonesi, si sono ben guardati di ringraziare chi li aveva arrestati dopo tanti anni di latitanza. Qualcuno degli ex mafiosi di Trapani che collaborano con la giustizia ha detto in passato ai pm che Matteo, sottoposto ad attacchi sempre più pressanti della magistratura che ha arrestato ogni persona che abbia avuto con lui contatti anche solo epistolari, possa aver valutato — come rivela una fonte giudiziaria — di costituirsi, di smettere di fuggire.
Ma poi ha cambiato idea. Non si ècostituito perché ha paura. Ha paura di subire vendette da parte dei mafiosi come lui. Ma la paura dell’arresto c’era, non tanto per finire in carcere, raccontano i collaboratori, ma perché temeva di essere ucciso durante il blitz. E un video-pizzino potrebbe essere anche la dichiarazione che un mese fa il favoreggiatore del boss Giuseppe Graviano, il gelataio Salvatore Baiardo, quando ha parlato della malattia del latitante e del fatto che sarebbe stato arrestato. Baiardo già in precedenza a questa affermazione aveva iniziato a fare dichiarazioni che hanno creato scalpore. Ha parlato dei miliardi che il clan avrebbe immesso nelle casse della politica; ha parlato di rapporti con Berlusconi, di antiche relazioni che risalivano già al padre di Giuseppe Graviano; ha nominato persino la leggendaria agenda rossa, quella che Borsellino portava sempre con sé e che al momento della sua morte è scomparsa nel nulla. Le ha sparate grosse ai giornalisti che lo hanno intervistato.
E più vai sotto con il microfono e la telecamera e più lui lancia la palla in tribuna, per usare un termine calcistico che lascia comprendere come questo favoreggiatore giochi ancora una partita a favore di Graviano. Gli investigatori hanno accertato che Baiardo è un inquinatore di pozzi, uno che svia le informazioni e lo fa a favore dei boss. Lui e Graviano giocano la stessa partita.
Tornando a Messina Denaro, rispetto alle immagini girate a Palermo in cui il boss appare ingobbito, davanti agli agenti del carcere si mostra invece reattivo, tonico e anche ironico. «Non ho una residenza» risponde agli agenti che devono compilare la scheda del nuovo arrivato. Chiedono quali sono i suoi precedenti penali. «Fino a oggi ero incensurato. Poi stamani mi hanno arrestato e adesso sono qui. Ma prima non ho mai avuto a che fare con la giustizia (sorride)».
Lui, con il ghigno, si definisce incensurato. In effetti è la prima volta che Messina Denaro viene rinchiuso in carcere, ma di precedenti penali è lunghissimo il suo casellario giudiziale. Adesso in carcere entra con condanne all’ergastolo già definitive. La sua famiglia ha precedenti? «(sorride) a quale famiglia si riferisce?» sembra ironizzare il boss, come se volesse alludere alla famiglia mafiosa.
L’agente precisa: c’è qualcuno tra i suoi familiari che ha precedenti penali? E lui: «Forse qualche parente… ». U siccu ha la sorella, i fratelli, il cognato e pure i nipoti che stanno in galera da anni. E suo padre era un vecchio capomafia trapanese, e lui stesso è cresciuto sulle ginocchia di Salvatore Riina. Poi Messina Denaro tiene a evidenziare che ha una figlia «ma non porta il mio cognome» e aggiunge che lei, però, non gli parla. Non vuole rivolgergli la parola e qui si fa serio. È veloce nelle risposte, le lunghe ore di stress, dal momento dell’arresto al viaggio che lo ha portato a L’Aquila, non lo hanno scalfito.
Resta comunque un personaggio tutto da scoprire, a partire dal tatuaggio che ha sul braccio sinistro, è una data (8 ottobre 1981) disegnata con numeri romani. E poi una scritta: “Tra le selvagge tigri”. E infine una citazione, parafrasando Victor Hugo: “Ad augusta per angusta”, per significare che i grandi risultati si raggiungono solo superando difficoltà d’ogni genere.
Infine nomina come suo difensore di fiducia la nipote prediletta, l’avvocata Lorenza Guttadauro, moglie di Girolamo Bellomo, detto Luca, già arrestato, figlia di Rosalia Messina Denaro e di Filippo Guttadauro, fratello dell’ex capomafia di Brancaccio Giuseppe Guttadauro. Un legale di famiglia. Una mossa che fa comprendere la strada che vuole percorrere il boss, quella del silenzio e della difesa a tutti i costi anche davanti a fatti evidenti, come le stragi.
Fino a oggi il boss è sempre stato difeso nei processi da un difensore d’ufficio, da oggi avrà la nipote ufficialmente al suo fianco. E sulla giustizia c’è uno scambio di battute fra il detenuto e gli agenti che gli dicono: «Esiste una giustizia divina e una giustizia terrena», lui per pochi secondi resta in silenzio e poi dice, con il sorriso ironico: «Ci rifletterò».