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 2023  gennaio 18 Mercoledì calendario

Intervista a Marcell Jacobs

La gabbia cala sul circuito dell’ippodromo più grande al mondo e Marcell Jacobs guarda i cavalli entrare negli stalli dalla terrazza del Meydan Hotel, a Dubai, dove il campione olimpico si allena da fine dicembre: «Ecco come stiamo noi». Sui blocchi, in attesa, con la velocità che già gira nell’aria mentre è tutto incredibilmente fermo. Il primo start dell’anno è previsto il 4 febbraio, a Lodz, Polonia, per i 60 metri che aprono la stagione indoor. Prima tappa di un 2023 con vista Mondiale, in agosto, a Budapest. E Jacobs vuole fissare l’orizzonte da subito: «Ho preso le mazzate che mi servivano».
Allenamenti a ritmo di trap. Vuole essere cattivo?
«No. Fin da piccolo ascoltavo il rap americano, Tupac, Eminem, 50 Cent e la trap di oggi mi riporta lì, però in italiano. Mi piace e non per le cavolate che dicono, non mi interessano, ascolto i concetti di fondo: gente che viene dal niente, si costruisce. Avvertono che in giro è pieno di squali. Mi ci rivedo. Poche persone che credono in te, poi fai qualcosa di importante e sembrano tutti amici. La maggior parte delle persone che ti stanno vicino hanno un secondo fine, sono rari quelli che lo fanno per chi sei. Quelli che lo farebbero senza il successo».
Dalla sua canzone più ascoltata Dubai: «Ho vari figli, ho vari sosia, ho vari cloni, ma non ho competitori», da «$€ Freestyle» di Sfera Ebbasta.
«Io ho vari figli che adoro, ho vari cloni che possono tentare di imitare me e il mio modo di correre e ho vari cloni che vogliono comportarsi come me per sentirsi fighi, ma non ho competitori. Non parlo dei rivali, ognuno è unico, con le proprie esperienze».
Chi la segue via Instagram quanto vede del vero Jacobs?
«Tanti quando mi conoscono mi dicono "Sembravi diverso, sei un buono". Io non posto immagini da duro e mi auguro che l’idea del tatuato che provoca non dia più l’idea del bad boy, è un concetto antico. Di certo, fin da piccolo la gente mi vedeva in un modo e poi parlandomi scoprivano che ero tutta un’altra persona».
Da bambino dava poca confidenza?
«Succede di più ora, prima tentavo la carta socievole a ogni incontro, oggi mi apro con chi decido di farlo e gli altri mi vedono come uno distaccato che se la tira. C’è tutto un altro mondo dietro».
Ha avuto tante fregature?
«Il giusto. Le batoste servono, nella vita le mazzate sono necessarie, sempre, a più riprese. Quando tutto sembra facile non ti godi nulla e nel momento in cui cadi ti fai male, se prendi botte eviti di rifare lo stesso errore».
Le mazzate sono sempre necessarie?
«Sì, ti trovi in situazioni inedite e impari. Dopo le Olimpiadi ho dovuto faticare per recuperare gli stimoli importanti che avevo prima. Il focus era gareggiare ai Giochi e vincerli, arrivato lì mi è capitato di allenarmi senza scopo e ho beccato una bella bastonata. La carriera non mai è scontata, neanche dopo due ori olimpici».
Ha vinto un Mondiale indoor e un titolo europeo. Dove sta la bastonata?
«Dopo la stagione al coperto ho avuto la sensazione che sarebbe stato tutto in discesa e l’ho presa sotto gamba».
Ha recuperato le motivazioni?
«Non solo, ho ritrovato la voglia, l’attenzione. Oggi so che quando raggiungi livelli altissimi, per migliorare anche di poco serve il doppio del lavoro».
Come vede il 2023?
«L’obiettivo resta il Mondiale all’aperto ed è ben presente. So quello che devo fare, chi sono gli avversari, il percorso. Nel mezzo c’è un Euroindoor da onorare».
Lei, Kerley, attuale campione del mondo e gli altri sprinter vi punzecchiate parecchio.
«Sono rivalità sane. Non ci si manca di rispetto, ci si stima, sfotterci ci dà stimoli e porta attenzione all’atletica che è seguita troppo poco».
Quando il record di Bolt, 9"58, è diventato un tempo reale e non marziano?
«Dopo le Olimpiadi ho smesso di pormi i limiti. Se lo fai ti fermi. Ho rinunciato a ipotizzare cronometri, mi dedico ai movimenti, ai gesti, immagino di farli nel modo più veloce possibile. Corro».
Quando Bolt lo ha realizzato, nel 2009, lei era un ragazzino. Che cosa ricorda?
«Ogni dettaglio... Non mi perdevo una gara di atletica e allora non mi ero ancora dedicato a una singola specialità, troppo giovane. Dal 2013 sono passato esclusivamente al salto in lungo prima c’era pure la velocità e quando ho visto Bolt vincere i Mondiali in quel modo ho pensato solo ad arrivare lì, non al tempo, a quel mondo»
In pochi anni ha cambiato diversi manager, perché è così difficile rappresentarla?
«Non pensavo lo fosse. Nel 2018 mi sono affidato alla società di Fedez, mi aspettavo che stare vicino a lui desse visibilità ma lì non hanno mai sviluppato un progetto. Me li aspettavo pronti al risultato invece ho vinto a Tokyo e mi hanno scritto 24 ore dopo. Erano al mare e non gliene fregava niente. Per contrasto, quando mi sono trovato davanti a persone che promettevano soldi e numeri mi sono affidato. In qualche mese ho realizzato che mi raccontavano come non sono. C’era poca trasparenza».
Ha coinvolto la famiglia per sentirsi al sicuro?
«Loro mi sono sempre stati vicini, non serviva questa situazione per unirci. Tutti sapevamo che mia madre non può essere la persona che mi chiude i contratti, ma mi serviva risistemare l’assetto con persone fidate al cento per cento. Una volta messo ordine, abbiamo organizzato tanti incontri per individuare il profilo giusto».
Lo ha trovato?
«Penso di sì. E questa società non mi ha promesso numeri, mi ha dato una visione internazionale. Con loro si parla di collaborazioni a lungo termine, per il post atletica».
Già ci pensa?
«Devo, correrò a lungo, ma bisogna essere preparati. Non intendo vivere l’ultima stagione senza programmi e non voglio bruciare tutto».
Sempre dalla sua canzone preferita: «Soldi sul conto, li sposto, li faccio, li spendo, li faccio di nuovo».
«Esatto, fino a che va bene e ci si sente forti. Fino a qualche anno fa il mio pensiero era solo corsa, non volevo considerare il dopo. Purtroppo in questo bellissimo sport da un giorno all’altro può cambiare la vita».
Quanto conta sua madre nelle decisioni che prende?
«Mi sa dare buoni consigli, ma le scelte sono quasi sempre diverse dalle sue. Mi diceva niente tatuaggi e orecchini, vedete un po’».
Toglierebbe un tatuaggio?
«Mi incuriosirebbe vedermi senza all’improvviso, non si può e allora me li tengo. Va bene così, mi raccontano».
Le piacciono le auto sportive, le gare dei cavalli, corre i 100 metri. Che cosa è la velocità per lei?
«Mi è familiare, sono cresciuto sulle piste da cross, con mio zio. Benzina, rumore, rapidità, una passione che mi ha accompagnato ai 100 metri: non concedono seconde possibilità. Sono splendidi».
Ha appena conosciuto Valentino Rossi, altro italiano che va veloce.
«Bello scoprire che dietro i campioni ci sono essere esseri umani disponibili e gentili, interessati a ciò che fai. Mi ha scritto subito un bel messaggio, rimarremo in contatto. Lui ha riscritto lo sport, non solo la MotoGp».
Rossi è stato la faccia dell’Italia. Vive lo stesso ruolo?
«Ancora non come lui, ha vinto l’impossibile. Mi piacerebbe essere conosciuto all’estero quanto Vale».
Lei non lo è abbastanza?
«Non mi sembra. In pista ho fatto il massimo, sono andato più veloce che potevo, ma intorno a me qualcuno ha sbagliato qualcosa. Prima mi hanno detto "bisogna essere globali", poi "il simbolo dell’italianità". Tutti sanno che Valentino è italiano però porta l’Italia nel mondo, persino a Bali ci sono maglie gialle con il 46».
Tempo fa ha scritto un post sulla situazione in Iran e ha firmato l’appello de «La Stampa».
«Pensare a persone che vietano ad altre persone la normalità è assurdo. Gli sportivi sono stati tra i primi a schierarsi al fianco delle donne e non è un caso perché per noi l’uguaglianza è la base. Le parole non spostano, ma se ognuno continua a dire che vietare delle libertà è indecente magari qualcosa succede».
La nazionale di calcio iraniana non ha cantato l’inno ai Mondiali poi ha ceduto. Lei che cosa avrebbe fatto?
«Sono felice di portare la mia bandiera il più in alto possibile perché l’Italia me lo permette. Se gareggi per uno stato contro ogni diritto è un incubo. Non riesco a immaginare: non cantare l’inno è tosto, non essere fieri del proprio Paese è un dramma».
Agli sportivi si chiede troppo coraggio nell’esporsi?
«Io non lo faccio mai perché ogni frase è così facilmente manipolabile. Ho le mie idee e me le tengo, purtroppo l’immagine degli sportivi è la prima che i politici usano e non sono gli unici. Come ti concedi un’opinione, spunta chi la vuole sfruttare per avere più potere e chi la vuole distorcere».
Ha spostato il suo camp a Dubai. Una nuova base?
«Dopo sei anni a Tenerife volevo cambiare, alle Canarie mi sono sempre trovato benissimo ma le esperienze nuove servono a dare energia, a vivere emozioni diverse e qui ho davvero tutto quel che serve».