il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2023
Mmd, una vittoria tardiva
“La cattura di Matteo Messina Denaro, il più importante boss della mafia, è una grande e storica vittoria dello Stato sulla criminalità organizzata”. Questo è l’unanime commento all’arresto di Matteo Messina Denaro. Ed è certamente importante che un criminale così efferato sia stato, come suol dirsi, assicurato alla Giustizia.
Una vittoria, per la verità, un po’ tardiva, quasi fuori tempo massimo, diciamo ai supplementari, perché il sessantenne Messina Denaro era malato di cancro al colon e, se per curarsi era costretto a sfidare tutte le norme di prudenza, vuol dire che, presumibilmente, non aveva più molto da vivere. Inoltre se i Ros sapevano, come pare, di questa malattia, non doveva poi essere così difficile sorvegliare gli ospedali oncologici siciliani, non di tutto il Paese, perché si sa che i mafiosi d’alto bordo preferiscono restare in loco dove si sentono più protetti.
La cattura di Matteo Messina Denaro che nella latitanza aveva preso il nome, curiosa ed esoterica coincidenza, di Andrea Bonafede, cognome dell’ex e contestatissimo (dai criminali) ministro della Giustizia, è un’arma a doppio taglio. Perché magistratura, Ros e polizie varie perdono un punto di riferimento. Per la verità è da tempo che la mafia ha cambiato tattica e rinuncia ad avere un capo unico, come furono Toto Riina e Bernardo Provenzano, si è fatta “liquida”, è dappertutto e da nessuna parte. Questo vale soprattutto per la più pericolosa delle quattro mafie che abbiamo, un vero record (mafia propriamente detta, ’ndrangheta, camorra, sacra corona unita): la ’ndrangheta, che ha esteso i suoi tentacoli al Nord Italia e anche oltre. In realtà quando ’ndranghetisti di medio calibro varcano i confini, come è avvenuto in Germania, vengono subito acchiappati dalla polizia e dalla magistratura tedesca che, come quelle belghe, non hanno tutti i lacci e lacciuoli che ci sono in Italia, dove, da Mani Pulite in poi, si conduce una guerra continua e feroce contro quella magistratura che oggi si esalta. Sono trent’anni che la magistratura viene combattuta in nome del peloso “garantismo” di matrice berlusconiana. Oggi si dice apertamente che la mafia siciliana ha goduto di ampi favori anche da parte imprenditoriale. Ebbene Silvio Berlusconi ha avuto vari contatti con la mafia, dallo stalliere mafioso Mangano chiamato ad Arcore per difenderlo proprio dalla mafia, come se in tutto lo Stivale non ci fossero stallieri un po’ meno compromessi, ai rapporti con Dell’Utri, cofondatore di Forza Italia, condannato a sette anni in via definitiva per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Nella sentenza definitiva su Dell’Utri, si legge che Berlusconi finanziò regolarmente Cosa Nostra almeno fino al 1992: l’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Ora vorremmo suggerire a Giorgia Meloni, che più o meno lecitamente si fa bella di questa cattura, di guardare all’interno della propria coalizione dove c’è un soggetto come Silvio Berlusconi che oltre a se stesso, il che già basterebbe, ha nel suo gruppo e anche fra i parlamentari e gli ex parlamentari forzisti soggetti compromessi, o addirittura condannati per rapporti con le tre maggiori mafie italiane, mafia, ’ndrangheta, camorra (la sacra corona unita pugliese fa caso a sé, perché la Puglia e soprattutto il Salento hanno una faccia un po’ più pulita). Fino a quando Silvio Berlusconi sarà il perno, per il momento insostituibile, della politica italiana, non ci sarà modo per la magistratura, per la Direzione investigativa antimafia, per i Ros, per la polizia, per i carabinieri, per quanta competenza e buona volontà ci mettano, di sconfiggere la mafia.