ItaliaOggi, 17 gennaio 2023
Casanova non era solo un don Giovanni
Inutile ammantare il nome di Giacomo Casanova di pregi letterari, culturali, intellettuali. Per la quasi totalità di chi lo senta nominare egli rimane il seduttore per antonomasia, l’avventuriero, il cinico don Giovanni, personaggio infatti cui spesso viene assimilato. Eppure Casanova ci fornisce un potente affresco dell’intera Europa nel pieno Settecento. Le sue Memorie (più correttamente, l’Histoire de ma vie) hanno conosciuto un’edizione corretta soltanto nel tardo Novecento, tanto che sta apparendone una nuova traduzione presso Luni. Non gli giova l’averle scritte in francese, lingua della quale non era sicuro padrone, tanto che sia le storie letterarie nazionali, sia quelle di oltralpe, finiscono per fornirgli spazio insufficiente rispetto ai meriti.
In ogni modo, affrontarle significa spaziare fra sovrani e papi, filosofi e bari, donne e viaggi, per l’intera Europa, con potenti ritratti. Accanto a esse, però, altri scritti meriterebbero attenzione, come il romanzo fantascientifico Jcosameron, le lettere, vari saggi e libelli. Casanova affrontò di tutto, perfino il teatro (mediocre resta il suo Polemoscopio), perfino traduzioni dell’Iliade in italiano e in veneziano, senza conoscere il greco, perfino la quadratura del cerchio. Vasta rimane la sua produzione ancora giacente a Duchov/Dux, ove visse gli ultimi e malandati anni (nato nel 1725, morì nel 1798, senza che si sia ritrovata la sua tomba).
Fra le tante opere da lui stese ve ne sono pure di storiche. Ne è un esempio la Confutazione della Storia del Governo Veneto d’Amelot de la Houssaie, pubblicata a Lugano ma apparsa con la falsa indicazione di Amsterdam nel 1769. Amelot era stato segretario dell’ambasciata di Francia a Venezia, da cui aveva ricavato una Storia del Governo di Venezia, edita nel 1676, che sollevò una dura reazione nel Senato della Serenissima, che ottenne l’imprigionamento dell’autore. Illuso di essere un fine politico, scrisse altri testi antiveneziani. Casanova confutò lo storico dal dente avvelenato a distanza di circa un secolo, avendo di mira uno scopo strettamente personale e scarsamente storiografico: acquisire il benvolere degli inquisitori di S. Marco e ricevere così la grazia per tornare nell’adorata città natia. Difatti, nel 1755 l’avventuriero era stato imprigionato nei terribili Piombi, riuscendo a fuggire in maniera tanto incredibile a ricostruirsi quando splendidamente da lui raccontata in un libello, dedicato appunto alla riuscita fuga dal carcere.
La Confutazione, dunque, si presenta opera d’interesse meramente erudito, com’è dimostrato dalla recente proposizione dell’originale a cura di Albert Gardin che aveva già proposto traduzioni casanoviane di Omero. Le notazioni dell’Amelot erano riprese e puntualmente replicate, soprattutto dilatate con accenni aventi scarso legame col testo redarguito. Sovente era ricordato Voltaire, poco amato da Casanova, il quale lo citava come Voltairo: «vive splendidamente presso Ginevra, perché nessun Prìncipe può soffrirlo ne’ suoi Stati, e nessuna Città nel suo recinto. Non iscrive, che in Francese, perché non sa perfettamente altra lingua, che la sua … comunicò a molti chiaramente varie idee, ch’egli non ha che confuse».
Amelot era «inavveduto ed ignorante». Era «un povero ingegno, e la parte in cui è cattivo, è molto maggiore di quella, in cui è passabile». La Francia veniva da Casanova quasi disprezzata, mentre Venezia «era venerata, come il Tribunale di tutte le Nazioni, considerata l’incorruttibilità de’ giudizi suoi, a quali spesso ricorrevano, come ad arbitri, le Potenze straniere». Una lisciata, dunque, verso il Senato, da mettere accanto al giudizio sprezzante che la Francia esprimeva contro le donne, pur esteriormente esaltandole.
I due primi libri terminavano con un Discorso sul suicidio, ben poco inserito nella Confutazione, ma ostile al pensiero del detestato Voltaire, il quale «ha parlato a caso» e a torto. La terza parte s’intitola: Supplimento all’opera intitolata Confutazione. Guarda caso, essa era di nuovo concepita contro Voltaire e la sua Pulcella d’Orleans, pur se l’autore ne negava la paternità, oltre che contro la letteratura come concepita del filosofo francese. Ma non mancavano cenni almeno curiosi, come la difesa del dialetto veneziano, perché «chi dice Dialetto dice tutto, trattandosi del modo in cui i Veneziani favellano» (e scrivono, avrebbe potuto aggiungere), «che è il più conforme al Toscano, e quello, che fra tutt’i dialetti dell’Italia s’approssima più al medesimo, eccettuato il Romano».
I vertici della Repubblica apprezzarono la Confutazione: evidentemente il secolo trascorso dal testo avvelenato dell’Amelot non aveva spento la rabbia e la furia vendicativa. Così nel settembre 1774 fu resa nota a Casanova la grazia, sicché l’impenitente viaggiatore poté tornare nella capitale di S. Marco dopo ben diciotto anni, ricevendo il perdono proprio per le benemerenze acquisite con la Confutazione. Ma i tempi erano cambiati, gli antichi amici scomparsi o non più vicini a lui, mentre le finanze languivano. S’impegnò così in quelle che si definirono «imprese editoriali precarie» e addirittura nel poco proficuo mestiere di spia. L’ultimo Casanova fu personaggio infelice, distante dall’impetuoso giovane seduttore di un tempo.