Corriere della Sera, 17 gennaio 2023
Il ritorno di di Niccolò Ammaniti
Inizia con un urlo di dolore, si chiude con un picnic su una tomba La vita intima (Einaudi Stile libero) di Niccolò Ammaniti, tornato al romanzo otto anni dopo Anna, la distopia pandemica diventata serie tv proprio mentre il Covid-19 rendeva reale quello scenario apocalittico. Tra l’apertura comico-grottesca e il languore malinconico del finale, nel nuovo libro lo scrittore esplora la verità di una donna che sembra vivere solo della sua immagine pubblica e insieme esibisce la patina insulsa e kitsch che incarta un presente eretto sull’immagine.
La regola che governa la scrittura di Ammaniti è limpida: più si stringe la gabbia intorno al protagonista più ossigeno arriva allo sviluppo narrativo, più lo scrittore si sente libero. Nei romanzi precedenti sono stati i luoghi angusti per cui Ammaniti ha una dichiarata propensione – prigioni nella terra (Io non ho paura), catacombe (Che la festa cominci), cantine (Io e te) – a stritolare il protagonista spingendolo all’azione, qui la costrizione non è fisica, piuttosto psicologica e sociale. Lo scrittore mantiene fede alla promesse e abbandona (forse per sempre) i ragazzini che ha saputo narrare con istintiva e credibile forza di immedesimazione per mettere il suo talento nelle mani di un personaggio che non gli somiglia e soltanto apparentemente ha smesso di crescere. Se Anna, la protagonista del romanzo precedente, ha rappresentato una doppia cesura – per la prima volta al centro lo scrittore metteva una ragazza e non un ragazzo; per la prima volta la rinuncia al confronto con il mondo degli adulti, tolti di mezzo con l’espediente della pandemia, era totale – qui lo strappo è ancora più netto e la sfida aperta. Ammaniti la cavalca con il suo felice estro, imprimendo alla lettura un umore tragicomico e il passo trascinante del romanzo d’azione, anche quando l’azione è tutta interiore.
Come mette in chiaro fin dal titolo, di Maria Cristina Palma, la protagonista, lo scrittore intende raccontare la vita intima – i pensieri, i sentimenti, le evoluzioni – osservandola dall’esterno. Ma per farlo deve raccontare quella esteriore: la vita pubblica, le relazioni sociali, lo sguardo opprimente degli uomini e quello competitivo delle donne, dal personal trainer che le fa inavvertitamente cadere un bilanciere sull’alluce nelle prime pagine del romanzo; alla giornalista che da lei pretende di estrarre, in diretta, la verità; al marito, Domenico Mascagni. Il quale non è semplicemente un avvocato, erede di una ricca dinastia di avvocati, ma il presidente del Consiglio italiano, progressista in crisi di coerenza e di consensi.
Maria Cristina, 42 anni, figlia di una ricca e disfunzionale famiglia, è una ex modella bellissima (per alcuni media «la donna più bella del mondo»), con alle spalle un passato funestato da lutti: la morte della madre quando è ancora bambina e poi del fratello durante un’immersione nel mare della Grecia; l’incidente in auto che le lascia parte del corpo ustionato e uccide il primo marito, lo scrittore Andrea Cerri, forse l’unico vero amore della sua vita. A disposizione della sua vita intima Maria Cristina ha soltanto due rapporti autentici: con la figlia adolescente Irene e con l’amico con cui è cresciuta, Luciano, il figlio proletario dei custodi della villa dei nonni, che pare «sbozzato da uno scultore indolente», tondo e irsuto come un panda.
Per alcuni la first lady è «un golem costruito a tavolino» da un team di esperti programmati dal Bruco, il potente social media manager del premier, laureato in Filosofia teoretica, famoso tra i gamer di tutto il mondo per aver sconfitto Ragnatos, boss invulnerabile di un celebre videogioco. Nessuno dell’entourage di Mascagni si muove senza un cenno del Bruco, anche se «leggenda narra che viva come un eremita sui monti Simbruini, alcuni sostengono in una caverna, altri in una chiesa sconsacrata, altri in un trullo ricostruito in un bosco da cui invia email complicatissime, autentici saggi di sociologia per dettare le regole di comunicazione». Ad Ammaniti interessa la trasformazione, il mutamento, e a Maria Cristina affida il compito di rappresentarlo. Lo fa indagando lo scarto tra come si comporta pubblicamente, come viene vista e valutata e ciò che effettivamente pensa, sente, è. Ed è questo mondo interiore, all’inizio completamente compresso, che poco alla volta viene liberato. Ma perché Maria Cristina esca da un destino che qualcuno sembra aver scritto per lei – «da bambina felice a orfana, da adolescente in un compound residenziale ad atleta, a stronzetta dei Parioli, a modella, a moglie di, a vedova di, a madre di...» – ci vuole un ostacolo. Perché – spiega il narratore nei panni di sé stesso – «le storie, quelle importanti, quelle che cambiano i destini, sono fiumi impetuosi, difficili da imbrigliare. Tu gli metti un ostacolo e loro deviano, trovano un’altra via per fluire». Qui l’ostacolo è un video compromettente (revenge porn o semplice tentativo di condivisione?) che un vecchio flirt dei vent’anni le invia. La paura di essere giudicati, la vergogna, la frattura tra essere e apparire che la protagonista incarna e che il mondo virtuale impone a tutti, è il terreno su cui Ammaniti lavora senza impartire lezioni moralistiche, dissotterrando dalla tomba dei social e del consenso parole come intimità e autenticità.
Lo scrittore alterna momenti in cui si lascia guidare dal divertimento portando all’estremo situazioni e personaggi fino a farne esilaranti prototipi, a impennate emotive, commoventi, tradotte in rapidi tocchi descrittivi, spesso resi efficaci dalla metafora biologica, dallo sguardo lucido su tutto ciò che è natura, dal racconto del dolore umano attraverso il dolore animale. «La vita esiste fino a quando c’è e chissà, forse non termina, ti abbandona e si trasferisce a un altro organismo in una staffetta senza fine. Muore un uomo e nasce una cavalletta, muore una cavalletta e nasce un cerbiatto e tutti, dai virus ai primati più evoluti, siamo meri astucci, fodere create dal Dna per una ontologica necessità di replicarsi».
Ammaniti racconta questi anni a modo suo – la politica senza ideali e una certa borghesia romana da «grande bellezza», i social e la tv, i soldi e il potere – con il gusto del paradosso che lo caratterizza con uno sguardo acuto, a volte indulgente. Sagge parrucchiere-santone indiane con negozi in periferia contro hair sculptor vestiti di caftani, giornaliste assetate di verità, imprenditori dell’hospitality di lusso, lobbisti che vogliono fare pressioni sul governo e magari anche un selfie con la first lady, exit counselor venuti dall’America per «rompere i percorsi mentali stereotipati» e permettere agli artisti di recuperare la perduta creatività: il presepe dello scrittore è popolato da personaggi che nella deformazione trovano la loro intrinseca verità.
«La malinconia è la felicità di essere tristi» fa dire Ammaniti, citando Victor Hugo, a uno dei personaggi meno empatici del libro, un rozzo e superficiale ministro del nord Europa. E in questo retrogusto dolce-amaro che rimane sul palato alla fine della lettura, nella felicità di essere tristi, risiede la forza di questo romanzo che dice molto del presente e delle nostre fragilità.