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 2023  gennaio 17 Martedì calendario

Così è stato arrestato Matteo Messina Denaro

«Dover fare i conti con la salute è un fatto democratico», dice il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido, che per quindici anni ha dato la caccia a Matteo Messina Denaro. Vuol dire che nella lotta a un tumore, anzi due, sono tutti uguali, non c’è padrino di mafia che tenga. Anche lui ha dovuto far ricorso al sistema sanitario nazionale ed è quello che l’ha incastrato.


L’arresto dell’ultimo capomafia stragista latitante dal 1993 è stato possibile grazie alle cure pubbliche a cui il boss s’è dovuto sottoporre per provare a contenere e sconfiggere il male che lo ha colto. E il blitz è scattato alle 8.20 di ieri mattina, nella clinica La Maddalena, quando i computer della struttura hanno registrato l’ingresso di Andrea Bonafede, nato a Campobello di Mazara il 23 ottobre 1963, arrivato per sottoporsi alla visita di controllo e al trattamento chemioterapico prenotato lo scorso giovedì.


Il sospetto che dietro quel nome si celasse il ricercato numero 1 di Cosa nostra era maturato da qualche mese, tramutandosi nel corso delle indagini in una convinzione via via più fondata. Ma la certezza poteva arrivare solo con il contatto diretto, e quindi la cattura. Per questo, quando il computer ha confermato l’arrivo di Bonafede, il dispositivo predisposto dai carabinieri è entrato in azione in tutta la sua imponenza, con circa 150 militari. Gli specialisti del Gis, il Gruppo d’intervento speciale, quelli che si muovono a volto coperto e con le armi spianate, hanno «sigillato» la clinica bloccando tutte le uscite dei sette piani della struttura; gli investigatori del Ros — il Raggruppamento operativo speciale che si dedica alle indagini antimafia — hanno cominciato a identificare tutte le persone presenti nell’edificio, alla ricerca del sedicente Bonafede; gli uomini delle strutture territoriali dell’Arma hanno cinturato la zona con doppio cerchio concentrico, per chiudere eventuali vie di fuga.


A operazione iniziata, mentre procedevano le verifiche sui primi ignari pazienti, il latitante s’è messo in fila per fare il tampone anti Covid ancora obbligatorio per accedere alle cure, ma dopo non è salito subito al piano dove doveva andare per il trattamento. Ha deciso di uscire fuori, forse per prendere un caffè o qualcos’altro al bar vicino insieme a Giovanni Luppino, l’uomo che l’ha accompagnato in macchina da Mazara del Vallo. È in quel momento che un ufficiale Ros gli si è avvicinato, notando la somiglianza con il volto invecchiato del boss ricostruito dai computer in questi anni di ricerche. L’aspetto e il giaccone elegante, insieme all’orologio Franck Muller dal valore di circa 36.000 euro che aveva al polso, sono stati un altro riscontro: la passione del padrino per gli abiti firmati è stata uno degli elementi acquisiti in anni di indagini.


Forse per un momento il ricercato ha pensato di provare a fuggire, ma se l’ha fatto ha capito subito che non c’era alcuna possibilità. Probabilmente s’era accorto del movimento dei carabinieri in borghese e aveva intuito che fossero lì per lui, e alla richiesta non ha nemmeno provato a mentire. «Lei è Messina Denaro?», gli ha chiesto il colonnello del Ros che l’ha avvicinato, e il boss ha risposto: «Lei lo sa chi sono», prima di ammettere: «Sono Matteo Messina Denaro».


La caccia era finita. Circondati dagli altri militari che gli sono piombati addosso, il capomafia e il suo complice Luppino (accusato per adesso di procurata inosservanza di pena) sono stati arrestati, caricati nella macchina con i vetri oscurati che li attendeva e portati in una caserma. Senza bisogno di mettergli le manette ai polsi.


Dal suo ufficio il procuratore aggiunto Paolo Guido ha seguito l’arresto in diretta collegato con i carabinieri che hanno operato, insieme al procuratore Maurizio De Lucia. E la tensione s’è sciolta in un abbraccio, prima di cominciare l’altra parte del lavoro: l’incontro con il boss, la contestazione formale dei capi d’accusa riassunti nelle condanne all’ergastolo e altre pene. Il procuratore De Lucia s’è presentato; l’aggiunto Guido invece non ne ha avuto bisogno, Messina Denaro l’ha riconosciuto: le operazioni che negli ultimi anni hanno portato in carcere centinaia di suoi fiancheggiatori veri e presunti, e quasi l’intera famiglia d’origine del latitante, hanno fatto sì che la preda conoscesse bene il cacciatore.


Ma come si è arrivati ad associare il capomafia malato con il nome di Andrea Bonafede, con un’indagine che — per come viene ricostruita — non contempla né «soffiate» né accordi sottobanco di cui immancabilmente già si vocifera? Di indizi sulla malattia del ricercato numero 1 se ne sono accumulati tanti negli scorsi anni, ma alcune intercettazioni fra persone a lui vicine, negli ultimi tempi, hanno fornito qualche elemento in più: discorsi sul tumore al colon, oltre che sui tradizionali problemi agli occhi; e poi a un doppio problema oncologico, non solo il colon ma anche il fegato. Frasi e mezze frasi non riferite direttamente al boss, ma visto il contesto era plausibile che si parlasse di lui.


A quel punto, tramite il ministero della Salute e i server che gestiscono le prestazioni a livello nazionale, è stata fatta un’indagine sulle persone che si sono sottoposte a interventi e cure per quelle due patologie; dati acquisiti tutti da remoto, attraverso i controlli sui contenuti dei computer delle singole strutture, e procedendo con varie scremature si è arrivati a una dozzina di nomi da approfondire. Tra i quali, verifica dopo verifica, è emerso quello di un certo Andrea Bonafede, di un’età quasi corrispondente a quella di Messina Denaro, operato nel 2020 al colon in un’altra struttura siciliana e a maggio 2022 a La Maddalena.


Indagando su quel nome, i carabinieri hanno scoperto che il giorno dell’operazione Bonafede non era in ospedale, bensì a casa sua. Sono state recuperate le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza sparse per le vie di Campobello di Mazara, che hanno immortalato quel signore a passeggio col suo cane, fumando il sigaro, mentre doveva trovarsi sotto i ferri.


Di qui l’idea che dietro quell’identità potesse nascondersi il boss. Anche perché il lavoro delle Squadre mobili e del Servizio centrale operativo della polizia aveva trovato da quelle parti tracce fresche del latitante. E il vero Bonafede, seppure finora incensurato , è il nipote di Nardo Bonafede morto qualche anno fa ma già capo della famiglia mafiosa di Campobello, legatissimo a Francesco Messina Denaro, padre di Matteo.


L’altro elemento che ha rafforzato le convinzioni di investigatori e inquirenti è stata una recente visita specialistica all’occhio sinistro, dello stesso paziente, monitorata sempre tramite i server del Servizio sanitario nazionale. Nuovi indizi incrociati con il lavoro dei carabinieri che — ricorda il generale Pasquale Angelosanto comandante del Ros — «non hanno smesso di lavorare nemmeno durante le feste di fine anno, trovando sempre aperte le porte della Procura».


E in Procura il nuovo capo De Lucia, arrivato a ottobre, ricorda adesso che «Matteo Messina Denaro ha certamente goduto di protezione e appoggi arrivati anche da una fetta della cosiddetta borghesia mafiosa, che si dipana nel settore della sanità locale e non solo». C’è da capire, ad esempio, chi abbia contribuito a fornire, nel Comune di Campobello, una carta d’identità intestata a Bonafede, con la foto del ricercato e un timbro che sembra autentico. O la patente di guida di recente emissione, sempre con quel nome e quella foto. Altri indizi arriveranno anche dal rifugio del boss, individuato ieri sera; una casa dove viveva con l’identità di Andrea Bonafede.