Corriere della Sera, 16 gennaio 2023
Biografia di Cristina Comencini raccontata da lei stessa
Cristina Comencini, qual è il suo primo ricordo?
«Il lettino di mia sorella, nata dopo di me, accanto al lettone dei miei genitori. Eleonora dormiva con loro».
E lei era gelosa?
«Questo non lo so. Però un pomeriggio mi svegliai urlando: non volevo più la tata, solo la mamma».
E il primo ricordo pubblico?
«L’invasione della Baia dei Porci, la crisi di Cuba. Papà cominciò ad accumulare latte condensato, pasta, viveri. Pensai che fosse impazzito. Ma lui, come quelli della sua generazione, aveva sempre la guerra in testa. Noi mai. Noi la guerra non sappiamo cosa sia. Loro lo sapevano».
Com’è stata la sua infanzia?
«Stupenda e selvaggia. Abitavamo alla Camilluccia e avevamo un grande cortile, dove passavo le giornate. Uscivo in bicicletta, giocavo a cavalcare il cane lupo di papà, Dago. La sera mi chiamavano perché tornassi a casa. Non giocavo con le bambole, non studiavo mai, a scuola andavo male. Non riuscivo a stare ferma».
Com’era suo padre, Luigi Comencini?
«Era nato a Salò, figlio di un ingegnere bresciano e di una svizzera di religione valdese. Papà era moralista, severo, taciturno, ma dolce con i bambini».
E sua madre?
«Era figlia di una principessa napoletana. Aristocrazia decaduta: “Non potremmo venderci un po’ di titoli?” chiedeva sorridendo suo fratello. Papà la incontrò a teatro, a una commedia di Eduardo. Fu attratto dalla sua risata. Si rividero a pranzo alla fiaschetteria Beltramme, che era il ritrovo della gente del cinema, da Lattuada a Carlo Ponti. Fu l’inizio di una grande storia d’amore, durata tutta la vita. Mio padre era un po’ anomalo…».
Cioè?
«Al tempo era considerato normale che il regista andasse a letto con l’attrice, come il pittore con la modella. Ma papà era troppo innamorato di mamma. Credo che trovasse meravigliosa Claudia Cardinale; ma lui non era quel tipo d’uomo. Anche se mi accorsi che sul set si trasformava».
In che modo?
«Era rispettosissimo dei tecnici, degli elettricisti. Ma con gli attori manteneva un certo distacco, una sua durezza. Aveva un rapporto speciale solo con i piccoli. Era convinto che l’infanzia fosse l’unico momento della vita davvero libero».
In effetti Comencini ha portato in tv i due grandi libri di formazione degli italiani, Pinocchio e Cuore.
«Sempre e solo maschietti. Un giorno gli chiesi: papà, e le femminucce? Mi rispose: le bambine sono già donne».
E lei?
«Dissi: “Ma come papà, nemmeno la libertà dell’infanzia ci volete lasciare?”. La sorte volle dargli solo figlie femmine: oltre a Eleonora e me, Paola, la più grande, e Francesca, la più piccola. Non voleva che facessimo il suo mestiere; invece tutte e quattro abbiamo lavorato nel cinema. Comunque, Pinocchio resta un capolavoro».
Franco e Ciccio erano il gatto e la volpe.
«Come fata turchina fu scelta, o forse imposta, la Lollobrigida, con cui mio padre non andava d’accordo. Così la trasformò in una streghina. Nel libro di Collodi, Pinocchio diventa un bambino soltanto alla fine; ma un film non può reggersi su un burattino. Così mio padre e Suso Cecchi D’Amico ebbero un’idea geniale: Pinocchio è un bambino che la fata turchina trasforma in burattino quando si comporta male».
Com’era Suso Cecchi D’Amico?
«Ho imparato molto da lei. Insieme abbiamo sceneggiato “Cuore”. Non era una che si metteva a insegnare, ma mi dava fiducia: “Tu cosa faresti?”. L’altra mia grande maestra è stata Natalia Ginzburg».
Perché?
«Le mandai un racconto lungo firmato con il mio nome, e me lo rimandò indietro. Tempo dopo, le feci avere un romanzo, “Le pagine strappate”, firmato con il cognome del mio secondo marito, Tozzi. Mi chiamò dopo 48 ore: aveva deciso di pubblicarlo. Un’emozione grandissima, rimasi muta al telefono».
Per suo padre lei è stata anche attrice, in «Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano».
«Ovviamente avevo una parte molto castigata: la conversa, abbottonata sino al collo, che si innamora del giovane Casanova, in un primo tempo ricambiata. Ma quando lei gli dice “vivremo poveri ma avremo tanti bambini”, lui impallidisce e si rifugia tra le braccia di due cugine allegre».
Lei ha avuto davvero un bambino giovanissima.
«Avevo fatto la scuola francese, che dura un anno di meno. Nell’estate della maturità partii con il mio fidanzato, Fabio Calenda, e ritornai incinta. Ne parlai a mia madre. In bagno, il luogo delle confidenze».
Cosa le disse?
«L’anno prima aveva perso un bambino: il maschio sempre atteso e mai arrivato. Mi disse: tienilo, il tuo, ma non sentirti obbligata a sposarti. Dette da mamma, che era molto cattolica, quelle parole furono importanti».
Com’era Carlo da piccolo?
«Come me: non voleva mai stare fermo. Vivacissimo. Neanche lui amava la scuola, anche se non fu mai bocciato: faceva il suo, poi usciva a giocare. Aveva molti amichetti, che un po’ dirigeva. Prima ancora lo ricordo in piedi nel box, mentre con due compagni di università ripetevo le lezioni d’economia…».
Il suo maestro era Federico Caffè. Che idea si è fatto sulla sua scomparsa?
«Caffè era un monaco dell’insegnamento. Misogino, dall’identità sessuale irrisolta. Forse non si è suicidato, si è rinchiuso da qualche parte. Di certo si è tolto dal mondo. Come Maiorana. E un po’ come Ettore Scola: che non scomparve, si ritirò».
Come mai sceglieste Carlo per il ruolo di Enrico, il protagonista di Cuore?
«Era lì… e con il nonno aveva un rapporto speciale».
Anche Carlo diventò padre molto presto.
«E io diventai nonna a 35 anni».
Cosa gli disse?
«Gli consigliai di fare il papà senza rinunciare a nulla. Così prese la licenza liceale, poi la laurea. In famiglia siamo sempre stati così: quando arrivava un bambino, era una cosa bella, non un problema; e se ci sono problemi, si risolvono. Subito dopo nacque Luigi, il figlio che ho avuto da Riccardo Tozzi, il produttore».
Come mai finì tra lei e Fabio Calenda?
«Per giovinezza. Avemmo anche una figlia, Giulia. Ma eravamo troppo piccoli, con tutto ancora da fare. Le strade si separarono».
È vero che lei era in Lotta continua?
«Sì. Al seguito di Fabio. Non ero una vera militante; anche perché avevo orrore degli scontri di piazza, come di qualsiasi forma di violenza. Il mio compito era prendermi cura dei figli delle compagne. Che quindi giocavano con Carlo».
Il suo ultimo libro, Flashback, è la storia di quattro donne in epoche diverse. Ma tutto comincia con un’amnesia. Proprio come in un altro suo libro, «La bestia nel cuore», da cui trasse il film che rappresentò l’Italia all’Oscar.
«“La bestia nel cuore” prende spunto da un fatto di cronaca: un fratello e una sorella, figli di un professore del liceo Tasso, abusati dal padre, senza che la madre, pur sapendolo, intervenisse. La realtà, rimossa, prima o poi ritorna, anche dopo decenni».
Lei ha mai subito molestie nel suo lavoro?
«Sul lavoro, no. Come quasi tutte le giovani donne ho avuto l’esperienza degli esibizionisti per strada, di quelli che ti mettono le mani addosso sugli autobus. Ma so che molte attrici hanno dovuto sottostare a molestie e ricatti».
Del MeToo si discute molto. È giusto denunciare anni o appunto decenni dopo?
«Certo che è giusto! A volte occorre molto tempo per elaborare quel che è accaduto, per trovare il coraggio di raccontarlo. Spesso la donna è vittima due volte: dell’uomo e del senso di vergogna che prova, come se fosse lei la colpevole».
Lei ha diretto Asia Argento.
«Quando aveva tredici anni. Una ragazza sensibilissima e bellissima, molto bisognosa di affetto. Ci eravamo perse di vista, ci siamo riviste da poco».
E cosa le ha detto?
«L’ho abbracciata».
Quindi ha fatto bene a denunciare Weinstein?
«Ha fatto benissimo».
Altre sue attrici sono Giovanna Mezzogiorno…
«Istintiva, generosa, viscerale: degna di suo padre».
…E Margherita Buy, di cui si dice che reciti sempre un po’ se stessa: la donna di sinistra, all’apparenza insicura, nevrotica…
«Non sono d’accordo. Certo, i registi tendono a collocarti sempre nella stessa parte. Ma Margherita è una grande attrice. E nella parte entra sino in fondo. Quando giravamo “Il più bel giorno della mia vita” sentivamo un suono che il fonico non riusciva a togliere. Non capivamo cosa fosse. Era il battito del suo cuore».
E Virna Lisi?
«Mi ricordava mia madre: brusca, sprucida; una signora borghese che si trasformava in una grande attrice. Quando fui candidata all’Oscar mi regalò un grosso corno, contro le invidie».
Quanto c’è di autobiografico nel suo ultimo libro?
«In Flashback non c’è nulla che non sia vero. Ricostruisco cose che sarebbero svanite, o chiuse in una scatola che nessuno apre».
Una delle quattro protagoniste vive al tempo della Rivoluzione bolscevica. Un periodo cui lei ha dedicato un altro libro che ha fatto discutere, «L’illusione del bene».
«Il comunismo è stato una tragedia. Rimossa. La sinistra italiana ha evitato di fare i conti sino in fondo con il passato. Le difficoltà del Partito democratico si spiegano anche così. Per quel romanzo fui attaccata dall’Unità. Mi confortò una lettera di Ezio Mauro, che mi scrisse: finalmente qualcuno ha scritto il libro che mancava sul comunismo italiano».
Poi, al tempo di «Se non ora quando», lei scese in campo contro Berlusconi.
«Che non fu mai nominato. Ci schierammo per la dignità delle donne: un milione di persone in tutta Italia, attrici e suore, scrittrici e operaie. Forse la più grande manifestazione nella storia del nostro Paese».
Le donne italiane hanno fatto passi avanti enormi.
«Certo. Ma ci vuole molto tempo per superare millenni di sottomissione. Ricordo una conferenza a Salina, in cui dissi che la rivoluzione delle donne era riuscita, senza spargimento di sangue. Intervenne Vittorio Taviani, il regista: “Un po’ di sangue sarà sparso”. Aveva ragione: guardi il martirio delle iraniane».
Cosa pensa di Giorgia Meloni?
«Una donna che ha fatto un enorme lavoro, in un mondo del tutto maschile. Ha avuto carattere, fortuna, capacità. Ma se ci è riuscita, è anche grazie al movimento delle donne; pure se lei non lo rivendica».
Cos’ha votato alle ultime elezioni?
«Ovviamente per Azione».
È stato un errore non fare l’accordo con il Pd?
«Ma Carlo l’aveva fatto, e ne era felice. Poi si è visto smontare l’accordo firmato. L’hanno boicottato in ogni modo. Resto convinta che attorno ad Azione possa nascere il partito riformista che manca all’Italia».
Perché è finita anche con il suo secondo marito?
«Perché dopo quarant’anni le cose cambiano. Non pensi mai di essere capace di separarti; eppure accade. È un grande dolore; ma ci vogliamo sempre molto bene. Ora ho un compagno francese, François Caillat, autore di documentari. Viviamo tra Roma e Parigi».
Crede in Dio?
«Non lo so. Ci penso. Con la mia nonna svizzera ho frequentato la chiesa valdese di piazza Cavour: la pastora Maria Bonafede era una figura straordinaria».
Ha paura della morte?
«Per ora no. Troppe cose da fare».
Come pensa l’Aldilà?
«Qualcosa di noi resta, anche se non la coscienza individuale. Siamo tante piccole onde nel mare, che si infrangono e si ricompongono».
Come fu la morte dei suoi genitori?
«Mio padre se ne andò dopo una lunga malattia. Il Parkinson lo spense poco a poco; alla fine non era più lui, ma fu comunque una lacerazione. Mia madre morì prima di compiere novant’anni: non volle festeggiare, “lasciatemi andare da papà”. Al funerale tagliammo la torta che le avevamo preparato per il compleanno».