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 2023  gennaio 16 Lunedì calendario

Isabelle Huppert contro il Metoo

Nella Syndacaliste, diretta da Jean-Paul Salomè, Isabelle Huppert interpreta, circostanza assai rara, un personaggio realmente esistito, che con le sue denunce mise a ferro e fuoco il settore del nucleare in Francia. Completamente trasformata, con una parrucca biondo platino che rievoca personaggi hitckcockiani, Huppert diventa Maureen Kearney, rappresentante di una multinazionale francese capace, dopo aver reso noti accordi segretissimi, non solo di far scoppiare uno scandalo mondiale, ma anche di salvare 50 mila posti di lavoro.
Eppure, se qualcuno dovesse aspettarsi un’appassionata difesa del personaggio e del ruolo, anche in nome di convinzioni politiche, resterebbe deluso perché Huppert, ormai più monumento che interprete, distingue in modo netto il suo impegno nel lavoro da quello nella vita, due mondi separati, nessuna sovrapposizione. D’altra parte se le capitasse di assomigliare ai suoi personaggi non sarebbe l’interprete inarrivabile che è: «Non sapevo nulla della vicenda di Maureen Kearney - spiega ai "Rendez -vous" di Unifrance sul cinema francese -, fino al momento in cui mi è stato proposto il ruolo».
La storia di Maureen Kearney ha un importante valore politico. Pensa che essere attrice significhi anche avere l’opportunità di portare alla luce eventi socialmente rilevanti?
«Fare un film non è uguale a fare politica, recitare, così come scrivere un libro, è un modo per creare immagini, per stimolare interessi, non può avere un significato strettamente politico, se non in un senso molto, molto ampio».
Come descriverebbe Maureen Kearney?
«In qualche modo ho trovato che somigliasse al tipo di donna che ho interpretato in Elle, è molto fredda, flemmatica, reagisce a tutto in maniera estremamente controllata, non mi era mai capitato di stabilire connessioni tra i miei ruoli, se non inconsciamente, stavolta è successo».
Pensa che un film come «La Sindacalyste» sia anche uno dei frutti del MeToo, nel senso che una vicenda del genere avrebbe avuto, un po’ di anni fa, più difficoltà nell’essere trasformata in film?
«Il MeToo è molto importante e ha ottenuto un sacco di risultati positivi, però adesso non possiamo certo dire che, prima del MeToo, fossimo tutti immobili, ciechi e muti, insensibili rispetto a quello che ci accadeva intorno. Insomma, siamo seri, anche senza il MeToo avremmo riconosciuto il valore dei risultati raggiunti da Maureen Kearney e la situazione terribile in cui si era venuta a trovare. Il MeToo non è responsabile di ogni cosa, oggi è tutto "MeToo, MeToo", ma noi, anche prima eravamo esseri umani coscienti e responsabili. Insomma, ero in grado di riconoscere il sessismo anche prima; credo che sfortunatamente esista tuttora, e non penso che il MeToo abbia risolto tutti i problemi. Sicuramente ha aiutato, oggi le voci delle donne sono più ascoltate e quindi c’è più possibilità di reagire. Però questo film si sarebbe potuto fare anche in passato».
Che cosa pensa della figura dell’intimacy coordinator, le è mai capitato di recitare su un set dove questa figura era prevista?
«Sì, so che esiste, penso che, in certe situazioni possa essere una figura utile e che debba esserci, naturalmente senza interferire con il lavoro con il regista. E comunque non solo quando ci sono in ballo giovani attori. Insomma, perché no? È un’idea».
In Iran le donne guidano la rivoluzione, pagandone i costi più alti. Che cosa pensa di iniziative come il video in cui le attrici di vari Paesi del mondo si sono tagliate i capelli per solidarietà?
«È un piccolo segno, ma davanti a questi incredibili avvenimenti, qualunque cosa può servire. Ci si sente senza parole, e anche un gesto minimo può servire a celebrare il coraggio immenso di quelle donne, di quei giovani, di quell’intero popolo».
Che cosa chiede al suo lavoro in questo momento, che cosa la spinge ad accettare o rifiutare un personaggio?
«Non cerco mai niente in particolare, in genere aspetto. Le ragioni per cui scelgo un film possono essere tante, dipende. Certe volte è perché mi interessa lavorare con quel determinato regista, magari perché lo conosco bene oppure perché, al contrario, non lo conosco affatto, altre perché mi attira la parte».
Ha vinto premi ovunque, il New York Times l’ha messa nella lista delle 25 più brave del ventunesimo secolo. Che effetto le fa, si è abituata alle lodi?
«No, non sono mai stanca di complimenti».
Cinema e serie. Da che parte sta?
«Quando posso mi capita di vedere serie televisive, ma seguirle prende molto tempo e quindi lo faccio di rado. Naturalmente cinema e serie non sono la stessa cosa, non si può parlare di prodotto artistico allo stesso modo».
Le sale stanno tornando a riempirsi in Francia più che in altri Paesi, come andrà a finire?
«Sì, la gente sta tornando nelle sale, soprattutto i giovani. Naturalmente la Francia, e Parigi in particolare, hanno una forte tradizione di cinefilia, il bello è che i ragazzi stanno andando a vedere film del passato, grandi classici, tutti prodotti che non possono trovare altrove. No, il cinema non è un’arte che sta morendo».