il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2023
A 30 anni dalla cattura di Riina
Trenta anni non sono bastati a diradare i misteri della cattura di Totò Riina. Il capitano Ultimo (Sergio De Caprio) e il generale Mario Mori hanno sempre detto che non perquisirono il comprensorio di via Bernini 54 dopo l’arresto per non insospettire i mafiosi e proseguire le indagini sui fratelli Sansone, che lo avevano costruito e vivevano lì.
C’è pero un’intervista uscita sul Corriere della Sera del 28 gennaio 1993 (segnalata da Angelo Garavaglia Fragetta sul sito delle Agende Rosse nel disinteresse generale) che non sembra coerente con questa strategia. Mori il 27 gennaio 1993 dice a Guido Gentili del Corriere nella caserma del Ros a Roma, che il capitano Ultimo “aveva sul gozzo il posto che poteva portare a Riina” e aggiunge: “Abbiamo tenuto il portone sotto controllo, la mattina abbiamo visto uno strano movimento, abbiamo filmato, è partito il pedinamento sul soggetto”. Di qui l’arresto. Solo cinque giorni dopo quell’intervista, il 2 febbraio, scatta il blitz in via Bernini 54. Il generale non parlò di ville e di un cancello ma di ‘portone’ e di ‘una strada piccola e uno stradone largo’. Però l’intervista poteva insospettire i Sansone sul fatto che il complesso di ville era stato individuato. Lo Stato entrò nella villa solo il 2 febbraio permettendo alla mafia in quei 17 giorni di portare via tutto, comprese le carte di Riina. Per la Corte di Assise di appello, che ha assolto il generale Mori per la cosiddetta Trattativa Stato-mafia “Con la mancata perquisizione del covo di Riina si intese lanciare un segnale di buona volontà (…)a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino”.
Il segnale era destinato all’ala moderata di Cosa Nostra guidata da Provenzano. In questo quadro è importante notare che il vero proprietario di casa Riina non erano i Sansone ma l’ingegnere Giuseppe Montalbano, condannato in primo grado nel 2004 a 7 anni e 6 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa anche per la storia della villa e per i suoi rapporti con Giuseppe Lipari, legatissimo a Provenzano.
Lipari faceva affari con Montalbano dagli anni ottanta e viveva, grazie a un comodato, in una casa di Palermo che prima era sua ma passò con altri appartamenti a Montalbano nel 1992. Non solo. Proprio Lipari (per i collaboratori citati nella sentenza del 2004) aveva chiesto a Montalbano di intestarsi la casa di Riina. I legami tra Lipari (definito dal pentito Siino “uomo degli affari” e “testa pensante dei corleonesi”) e Montalbano non furono valorizzati nel 1993.
Quando il 2 febbraio i Carabinieri finalmente vanno in via Bernini fermano i fratelli Gaetano e Giuseppe Sansone. Tutti i media per anni parlano di loro come i proprietari della casa di Riina. In realtà avevano costruito le ville del complesso ma quella di Riina nel 1983 viene ceduta alla Villa Antica Spa di Montalbano e moglie. Per anni Montalbano non viene messo a fuoco da media e pm. Certo il suo non è l’identikit tipo del padrone del covo del capo di Cosa Nostra. Il suo trisavolo è Giuseppe Montalbano, classe 1819, combattente garibaldino ucciso nel 1861 dagli sgherri dei feudatari. In suo onore i primogeniti del casato si chiamano tutti come lui. Il professor Giuseppe Montalbano, classe 1895 morto nel 1989, nipote del garibaldino e padre dell’ingegnere del covo, è nominato da Togliatti nel 1944 segretario del Pci siciliano, fu deputato alla Costituente, poi vicepresidente della Regione. Il padre comunista e il figlio ingegnere furono indagati dai giudici Falcone, Guarnotta e Di Lello nel 1984 e archiviati nel 1987. Nel 1993 la Procura indaga di nuovo l’ingegnere per il covo ma nel 1995 presenta richiesta di archiviazione accolta dal Gip. Per i pm le carte sono a posto. Villa Antica affitta nel 1985 a tale Giuseppe Bellomo di Mazara del Vallo che rinnova il contratto nel 1992. Tutto tracciato: pagamento in assegni, fatture spedite a Mazara. Riina allora circolava con il documento di Bellomo, poi condannato per favoreggiamento. Il boss, per i pm di Palermo, vive da settembre 1985 al 15 gennaio 1993, più di 7 anni, a casa di Montalbano ma a sua insaputa. I pm lo archiviano nonostante le balle iniziali su una circostanza fondamentale: come finisce la locazione? Il giorno dopo la perquisizione del 2 febbraio 1993 l’ingegnere si presenta in Procura e mente dicendo che Bellomo ha lasciato la casa già a ottobre 1992. Un giorno dopo torna e cambia versione.
La sentenza del 2004 del Tribunale di Sciacca non crede nemmeno alla seconda versione che riporta per sottolinearne le contraddizioni. Montalbano raccontò che “sarebbe stato contattato dal sedicente Bellomo (alto con gli occhi gialli ed un linguaggio forbito) presentandosi a casa sua gli avrebbe intimato di mandare il figlio ad abitare nella casa di via Bernini; in subordine di trasferirci parte dei suoi uffici; ed in ulteriore subordine di dire che la casa era sfitta da settembre-ottobre ’92. Lui per paura avrebbe acconsentito alla terza delle suddette richieste (…) ma preso dal rimorso la stessa notte non riuscì a dormire ed il giorno successivo (il 4 febbraio 1993) si recò nuovamente in Procura e spontaneamente riferì la verità”, cioé che dopo l’arresto e la visita del sedicente Bellomo (l’uomo ‘dagli occhi gialli’ non sarà mai identificato) “Gaetano Sansone gli avrebbe detto che lui era stato incaricato di fare dei lavori presentandogli il Parisi (Mastro Angelo)”. I pm archiviano e Montalbano resta incensurato e proprietario della villa. Se poi è stato condannato in via definitiva due volte per concorso esterno e riciclaggio lo si deve al pm di Palermo Giovanni De Leo che per caso si imbatte di nuovo in lui indagando nel 1998 sul boss di Sciacca Salvatore Di Gangi.
Montalbano fu condannato dal Tribunale di Sciacca per i suoi rapporti con Lipari, per la villa e per le vecchie storie di Palermo grazie all’enorme lavoro dei carabinieri guidati dal maggiore Domenico Strada, poi colonnello al Ros di Firenze. A loro si deve l’indagine approfondita su Montalbano, il covo e i rapporti con Lipari. Annotarono che le bollette della luce della villa di Riina-Bellomo erano pagate dalla società di Montalbano; che fu costruita la piscina della villa in uso ai Riina, “senza che il proprietario sia in qualche maniera intervenuto nella sua realizzazione, pagando le spese o autorizzando”. Sempre grazie a quelle indagini dei Carabinieri nel 2000 il pm di Sciacca Dino Petralia (futuro capo del Dap) ottiene il sequestro dei beni di Montalbano per un valore di 250 milioni di euro. Però la Corte di Appello di Palermo restituisce tutto all’ingegnere nel 2006 dando ragione alle perizie della difesa sull’origine lecita del patrimonio. Solo la villa di via Bernini è confiscata in in via definitiva. Ora è una caserma dei carabinieri. Non era affatto scontato.