il Giornale, 15 gennaio 2023
I protettori (senza armi) dei capolavori dell’Italia
Ecco quello che ci saremmo persi. Il Discobolo Lancellotti, un marmo del II secolo d.C., copia romana del celebre bronzo di Mirone, oggi primattore del Museo Nazionale Romano; la Danae (1544-45) di Tiziano, che riposa sicura al museo di Capodimonte, a Napoli; la lunetta con l’Annunciazione (1534 circa) di Lorenzo Lotto, pezzo imperdibile della collezione dei Musei Civici di Palazzo Pianetti a Jesi. E poi, ancora: la tela con Santa Palazia (1658) del Guercino, il ritratto di Alessandro Manzoni lasciatoci da Francesco Hayez e quello di Enrico VIII di Hans Holbein il Giovane; e un numero considerevole di capolavori oggi custoditi nella Galleria nazionale delle Marche di Urbino: la Crocefissione di Luca Signorelli, l’Immacolata Concezione del Barocci, la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca...
Ce li saremmo persi tutti, durante gli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale per le spoliazioni dei gerarchi nazisti, per i bombardamenti, per i saccheggi... se non fosse stato per l’abnegazione, anzi la devozione, di un gruppo di eroi civili che rischiando la carriera e a volte la vita salvarono un pezzo del patrimonio artistico italiano. È grazie a loro se possiamo ancora vedere quelle opere, qui, oggi. E non per caso sono di compensato grezzo, come enormi casse da imballaggio, le pareti e i pannelli che creano lo spazio della grande mostra Arte liberata, 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra aperta fino al 10 aprile alle Scuderie del Quirinale a Roma.
Curata da Luigi Gallo e Raffaella Morselli (l’allestimento è dall’architetto Francesca Elvira Ercole), la mostra è insieme tre cose. Prima di tutto è un’inedita esposizione di oltre cento opere prestate da ben quaranta musei italiani, oltre a fotografie e filmati d’epoca (c’è la foto di Hermann Göring che posa nella sua casa di campagna con il Cerbiatto di Ercolano che fece requisire al Museo archeologico di Napoli, ma anche la scena del film Paisà di Roberto Rossellini in cui si vede il Corridoio Vasariano degli Uffizi ancora ingombro di casse di opere d’arte). Poi la mostra è un omaggio istituzionale – tributato dall’Italia repubblicana attraverso le Scuderie del Quirinale a coloro che nel dramma della guerra, coscienti dell’universalità dell’arte, senza armi e con mezzi limitati, si schierarono in prima fila per conservare un tesoro artistico a rischio: storici, sovraintendenti, funzionari alcuni rimasti famosi, altri dimenticati come Giulio Carlo Argan, Palma Bucarelli, Emilio Lavagnino, Vincenzo Moschini, Pasquale Rotondi, Fernanda Wittgens, Noemi Gabrielli (sono molte le donne protagoniste), Aldo de Rinaldis, Bruno Molajoli, Francesco Arcangeli, Jole Bovio o l’agente segreto e futuro ministro plenipotenziario incaricato delle restituzioni Rodolfo Siviero. Molti di loro affiancarono gli uomini del «Monuments, Fine Arts, and Archives Program», la task force composta da professionisti dell’arte provenienti da tredici diversi Paesi e organizzata dagli Alleati per proteggere i beni culturali nelle zone di guerra.
Ma Arte liberata, 1937-1947 è soprattutto una mostra di storie. Come quella del Discobolo Lancellotti (il pezzo forte che apre il percorso espositivo, con alle spalle una gigantografia di Hitler), statua per fama pari solo all’Apollo del Belvedere, o al Laocoonte, e di una bellezza assoluta. Quando Adolf Hitler la vide, durante il suo viaggio a Roma nel maggio 1938, riconoscendo nella perfezione fisica dell’atleta il mito della razza ariana, decise di portarsela in Germania. Chiese a Mussolini di concedergliela, ma il Consiglio superiore delle Scienze e delle Arti si oppose, e così Hitler mandò avanti Hermann Göring che la acquistò tramite compravendita privata col principe Lancellotti (prezzo: 5 milioni di lire). Essendo un’opera notificata alle Belle Arti, vincolata dal 1909, la sua esportazione era tuttavia vietata, ma grazie alle pressioni del ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, alla fine riuscì ad arrivare in Germania nel giugno 1938. Fu esposta nella Gipsoteca di Monaco di Baviera in attesa che si compisse il progetto mai realizzato del più grande museo d’arte del mondo, il «Führermuseum», che Hitler sognava a Linz, e che avrebbe dovuto contenere tutte le opere acquistate, confiscate o rubate dai nazisti in Europa. Il Discobolo tornò in Italia nel ’48, nonostante molte opposizioni, ricorsi giuridici e svariati ritardi da parte della Repubblica federale tedesca, dopo che Rodolfo Siviero riuscì a convincere il Governo militare alleato che l’opera era stata razziata dai nazisti.
Oppure la storia di Pasquale Rotondi, il giovane soprintendente delle Marche che fu incaricato di organizzare un piano di salvataggio e che nei depositi appositamente allestiti nella Rocca di Sassocorvaro nel Montefeltro, a Palazzo dei Principi di Carpegna e nei sotterranei della Cattedrale e del Palazzo Ducale di Urbino, nascose capolavori di Giorgione, Bellini, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Tiziano, Crivelli, Carpaccio, Mantegna e Raffaello provenienti da Venezia, Milano, Urbino e Roma. Alla fine furono quasi diecimila le opere sotto la sua custodia (qui ad esempio c’è la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, che rimase a lungo nascosta sotto il letto matrimoniale di casa sua...). L’intera vicenda venne alla luce solo negli anni Ottanta.
E soprattutto la mostra racconta la storia diversa da certa vulgata – di Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale dal ’36 al ’43, uomo coltissimo e figura critica del Ventennio. Non rinnegò mai l’essere stato fascista, intuì subito la deriva totalitaria di Mussolini (avversò ferocemente l’alleanza con Hitler, cercò di temperare la durezza delle leggi razziali) e fu colui che studiò con largo anticipo e organizzò le operazioni di messa in sicurezza del patrimonio artistico, con la conseguente elaborazione del piano per lo spostamento delle opere, scegliendo uomini come Argan o Pasquale Rotondi. «Contro mio nonno c’è stata una lunga campagna di stampa racconta al Giornale Angelo Polimeno Bottai, caporedattore del Tg1, nipote del gerarca, sul quale sta scrivendo un libro ma in realtà fu la spina nel franco di Mussolini, la sua coscienza critica. Si oppose a Hitler, marcò la differenza tra fascismo e nazismo, e fra coloro che il 25 luglio votarono l’Ordine del giorno Grandi che mise in minoranza il Duce fu l’unico che poi nel ’44 si arruolò come soldato semplice nella Legione straniera e andò a combattere i nazisti. Ma soprattutto Giuseppe Bottai, il quale vedeva quanto Hitler e Göring fossero famelici di arte antica, nel giugno 1939 emanò la famosa legge per la tutela delle opere di interesse artistico e storico, così da rendere più difficile l’esportazione dei nostri tesori disciplinando così per la prima volta la conservazione dei beni culturali. Così, partì il suo piano di messa in sicurezza del patrimonio artistico: stilò tre liste, a seconda dei livelli di importanza delle opere, e poi individuare i rifugi, i trasporti, gli edifici a rischio...».
La legge Bottai, e il suo programma di salvataggio, non riuscirono a difendere tutto il Duce e il Führer erano più forti di qualsiasi legge ma a proteggere molto. E tanto di quel molto, oggi, è qui.