La Lettura, 15 gennaio 2023
Su "La casa del destino" di Jessie Burton (La nave di Teseo)
Sono passati 18 anni — anche se nella realtà editoriale sono appena una decina — e il Secolo d’Oro sta diventando un doloroso ricordo di lusso perduto nella mente della composita famiglia olandese Brandt, anche perché «la gioia in quella casa è sempre legata alla paura di perdere qualcosa». La maestosa casa sull’Herengracht, impregnata di non detti e gradualmente sguarnita dei mobili, degli arazzi, dei simboli di prestigio, come l’ultimo quadro, ritratto di un naufragio, venduto per saldare i conti del macellaio. Città splendida e crudele, nel 1705 «Amsterdam è un porto pieno di diversità. Ci sono gli ugonotti francesi scappati dalla ferocia cattolica» e «ci sono i lavoratori itineranti che vengono dalla Germania, dalla Svezia, dalla Danimarca e dall’Inghilterra». Poi «ci sono i ricchi mercanti ebrei portoghesi che arrivano dalle loro piantagioni in Brasile», oltre a «uomini che provengono da Giava e dal Giappone: marinai, dottori, mercanti, viaggiatori, venditori di bigiotteria». Eppure la pelle ambrata ed esotica di Thea attira sempre sguardi indagatori e, da 18 anni, suscita «apprezzamenti audaci e scaltri sulla sua persona fisica». Thea, l’ereditiera meticcia, il frutto di una relazione autentica ma clandestina, «un enigma che la città muore dalla voglia di risolvere».
Comincia così, anzi ricomincia, all’alba di un nuovo secolo e della giovinezza di un nuovo personaggio, La casa del Destino, il seguito che l’inglese Jessie Burton, prima attrice e poi scrittrice, ha finalmente deciso di offrire al suo primo e insuperato successo, Il miniaturista (pubblicato in Italia da Bompiani). Tradotto anche questa volta da Elena Malanga, ma per La nave di Teseo, il capitolo successivo ha perso alcuni degli storici protagonisti della saga, scomparsi tragicamente nel volume iniziale: Johannes Brandt, il benestante marito-non-marito di Nella, accusato di sodomia e condannato alla pena capitale, e sua sorella Marin, morta partorendo in segreto Thea. Sopravvivono Nella, diminutivo di Petronella, vedova ormai non lontana dai quarant’anni; Otto, il padre di Thea, il nero dalle origini imprecisate che Johannes ha riscattato dalla schiavitù nelle piantagioni di quello che è oggi il Suriname; e Cornelia, la vecchia cuoca e bambinaia di Thea, la sua confidente e più preziosa testimone della breve vita di Marin.
Occorre invece arrivare alla quarantunesima di 448 pagine per ritrovare, in un baule confinato in soffitta, labili tracce di chi ha dato titolo e magia al primo volume: il miniaturista. Anzi, la miniaturista. La profetica e sfuggente artigiana che aveva aiutato Nella ad arredare la casa di bambole dono di nozze di Johannes: una rappresentazione giocattolo in scala ridottissima della loro magione, bizzarro risarcimento di un matrimonio non consumato e di una vita coniugale negata. Era un regalo stregato, il primo della lunga serie di biglietti e manufatti che l’invisibile «guida» aveva fatto recapitare a Nella, per spostare in seguito le attenzioni sull’inconsapevole Thea, giunta alla soglia della vita adulta. La miniaturista continua così a essere l’onnisciente fantasma che appare e scompare anche ne La casa del Destino. Dissemina messaggi cifrati, indizi piccoli e perfetti come il frutto ancora quasi sconosciuto in Europa, un minuscolo ananas, che suggerisce alla famiglia la via della salvezza da un passato opprimente e da un futuro convenzionale, e altrettanto feroce.
Jessie Burton, un caso editoriale fin dall’esordio, riallaccia i fili del tempo, intreccia quelli del tribolato rapporto fra Nella, teorica di una «fredda filosofia dell’amore», e la passionale Thea, che ha trovato nel teatro classico e in una delle sue più talentuose interpreti, la trentenne Rebecca Bosman, una scuola di libertà e autonomia. Quanto basta per farle detestare i fastosi balli organizzati per favorire incontri tra giovani di buona famiglia e combinare matrimoni sugli unici cardini che muovono le relazioni tra i canali: denaro e potere. Se la zia aveva accettato il suo destino in cambio di una provvisoria sicurezza economica, meno di vent’anni dopo la nipote si ribella, difende il diritto a decidere il proprio, pagando anche il prezzo dell’inesperienza.
Per quanto un po’ improbabile, quella scintilla di femminismo militante nell’alta società olandese algida e calvinista d’inizio Settecento riesce a non risultare anacronistica. La zia non ha, per esperienza diretta, alcuna fiducia negli uomini e nutre, come la nipote (e l’autrice), una schietta antipatia per le regole del tempo, per la boria dei ricchi come Clara Sarragon, per l’insistenza delle loro occhiate incuriosite dai tratti meticci della ragazza, in singolare contrasto con quel suo «perfetto accento di Amsterdam».
Il più emancipato comunque risulta essere l’ex servitore nero di Johannes, Otto, quando ricorda ruvidamente a Nella: «Il matrimonio non è una garanzia di sopravvivenza. Tu dovresti saperlo meglio di tutti». Ma, con l’età e le sofferenze patite, Nella è diventata una donna disincantata e pragmatica e, per salvare i bilanci famigliari in declino, cerca le risorse dove può trovarle: nel patrimonio di qualche buon partito cui dare in sposa la recalcitrante Thea. Il padre e la balia cercano di difenderla da quei progetti, anche quando la giovane sembra pronta a sacrificarsi per loro, ma è la ricomparsa della miniaturista a decidere le sorti di tutti.
L’intreccio del romanzo funziona anche perché, come nel primo volume, la scrittrice non ha lasciato nulla al caso. Si è meticolosamente documentata sulle abitudini dell’epoca e del luogo, sui commerci con le colonie, ha esplorato libri di ricette olandesi di fine Ottocento, affinché risultassero inconfutabili perfino le prelibatezze cucinate da Cornelia per il diciottesimo compleanno di Thea o per i pasti dei suoi eventuali pretendenti: i puffert imbevuti di acqua di rosa, le frittelle di uova guarnite con finocchio e aneto, lo stufato di piccione.
Ci sono voluti una decade e altri due romanzi per indurre Jessie Burton a prendersi il rischio di un sequel de Il miniaturista, tradotto in 37 Paesi e venduto in oltre un milione di esemplari, dal quale è stata tratta una miniserie tv appena arrivata in Italia. Ma l’accoglienza del seguitoda parte della critica britannica e americana, la scorsa estate, ha ripagato il coraggio, suggerendo addirittura l’ipotesi che il finale de La casa del Destino possa lasciare spazio a una terza puntata nella storia dell’indomita famiglia.