L’Economia, 14 gennaio 2023
A Davos va in scena la crisi della globalizzazione
Se Davos è sempre stato il party della globalizzazione, resta da capire che party sarà ora che la globalizzazione sembra ovunque in ritirata o almeno nel pieno di un cambio di pelle dagli esiti imprevedibili. E non è solo la guerra che sta scatenando nel cuore dell’Europa la Russia, che pure fino al 2021 era fra le potenze più influenti e benvenute al World Economic Forum. Non è solo il fatto che Roscongress Foundation — un’emanazione diretta di Vladimir Putin — dal 2017 aveva con il World Economic Forum un “memorandum di cooperazione”, mentre ora il Cremlino sta cercando di distruggere il mondo di Davos a colpi di mortaio. Il problema è più profondo e il cambio di pelle è ovunque, nell’evento si terrà la prossima settimana sulle montagne svizzere. Fra Stati Uniti e Cina si alzano barriere commerciali, le filiere globali dell’industria non si sono mai riprese del tutto dalla pandemia, mentre Bruxelles e Washington si scontrano su chi sussidia di più la propria industria.
La crisi delle Big Tech
Se Davos oltre il denaro ha mai avuto un’ideologia, essa oggi sembra salda come il socialismo reale negli anni ’80. Sarà per questo, ma il gioco d’incastri delle presenze e assenze della settimana di incontri che si apre lunedì si presenta come un mosaico particolarmente illeggibile. Ci saranno gli amministratori delegati di Goldman Sachs e BlackRock, David Solomon and Larry Fink; quelli di Microsoft e Amazon Satya Nadella e Andy Jassy; e il presidente di Meta-Facebook, Nick Clegg. Insieme, i loro gruppi negli ultimissimi mesi hanno annunciato circa 34 mila licenziamenti. E insieme i beniamini di Davos delle sei più grandi Big Tech — con Alphabet-Google, Apple e Netflix, oltre a Amazon, Meta e Microsoft — arrivano al Forum dopo aver perso oltre quattromila miliardi di dollari di valore di mercato nell’ultimo anno. Vero, questi grandi gruppi avevano creato molti più posti negli ultimi anni di quanti non ne distruggano adesso. E anche dopo il pessimo 2022, le Big Tech hanno comunque generato quasi seimila miliardi di dollari di valore di Borsa in un decennio. Ma benché parli sempre di “strategie” e “visioni”, il mondo di Davos vive nell’immediato. Preferisce dimenticare o fingere di farlo, se di qualcosa il parlare suona scomodo.
La scomparsa del mondo cripto
Così il mondo delle criptovalute, che sulle montagne svizzere era stato nutrito, allevato ed esaltato, quest’anno è praticamente scomparso: ci sono da rimuovere duemila miliardi di dollari di valore bruciato per tanti investitori piccoli e ingenui, oltre al più grande scandalo finanziario dal 2008 con il crash della piattaforma Ftx di Sam Bankman-Fried. Sarà per questo, sarà per il focus spietato su costi e benefici immediati, ma fra i leader dei grandi Paesi dev’essere corsa voce che a Davos ora è meglio non esserci. Il costo politico nei sondaggi dello stringere troppe mani di titani del business rischia di essere intollerabile, in quest’era di populismo endemico.
L’assenza della Francia (e dell’Italia)
L’unico ad esserci fra i leader del G7 sarà il cancelliere Olaf Scholz, perché la Germania ha bisogno di rilanciare la propria vocazione produttiva dopo lo choc russo. Ma Emmanuel Macron non si farà vedere e permetterà a pochi fra i ministri francesi di esserci. Rishi Sunak si tiene lontano, al riparo dalla tradizione molto blairiana per cui il premier di Londra non si perde mai una sola ora di Davos (Tony Blair in persona, uomo di un’altra era, sì che ci sarà invece). Verrà il leader laburista britannico Keir Starmer, giusto perché studia da premier e deve stabilire relazioni. Tutto sommato di basso profilo anche le delegazioni americana, cinese e giapponese, mentre persino una star davosiana come il leader canadese Justin Trudeau non si farà vedere. L’Italia poi batte tutti i record di assenza, perché né la premier Giorgia Meloni né nessun ministro economico presenzieranno ai tavoli (riservati) che comunque contano e servono ancora specie a chi è in deficit di reputazione.
Il ruolo degli Emirati Arabi Uniti
Ci sarà infatti chi ha più bisogno di visibilità internazionale, venendo da Paesi con meno peso specifico: la leader finlandese Sanna Marin, il greco Kyriakos Mitsotakis. Ma soprattutto, sempre di più, ci saranno per intero le classi dirigenti delle satrapie euroasiatiche e mediorientali in cerca di legittimazione globale. Quest’anno spiccano gli Emirati Arabi Uniti, che a Davos non sono presentati come la monarchia assolutista che ospita il denaro sporco dei russi o permette ai russi di importare tecnologie di guerra. No, a Davos gli Emirati sono il Paese che ospiterà il prossimo vertice globale sul clima e per questo ha stretto un “accordo” con il World Economic Forum. Non si sa se e quanto paghi. Di certo esponenti degli Emirati sono invitati in ben 28 dibattiti – più di una superpotenza – mentre ne modereranno un’altra decina con giornalisti sempre degli Emirati. Poco importa che il Paese sia appena stato declassato, da Reporter senza Frontiere, al 138esimo posto al mondo per libertà di stampa. Ma Davos è anche questo: potere e denaro allo stato puro, senza finzioni.