Specchio, 15 gennaio 2023
Biografia di Giampiero Mughini raccontata da lui stesso
Giampiero Mughini è un rompicazzi. Uno del Novecento. Uno che «non si fa un vanto dello spaccare con un’ascia la mela in due parti distinte e separate», che non è netto ma deciso, che borbotta, s’arrabbia, entusiasma, infervora, appassiona a niente come ai libri (specie le prime edizioni: ne ha a migliaia), gli oggetti (ne ha a centinaia), i cani (ne ha due - e dice «mi sembra assurdo chiamarli cani»), la moglie Michela, le sfumature, la Juve. Uno che a ottant’anni si commuove quando gli chiedono di suo padre - «che aveva il piglio di Bogart» - in una trasmissione televisiva in cui è ospite per parlare della sua partecipazione a Ballando con le stelle. Il papà fascista che però non gli ha mai impedito di essere comunista (lo è stato per poco, ma convintamente: ha diretto Lotta Continua, ha lavorato per Il Manifesto, ha fondato Giovane Critica). Ai piedi ha sempre, o quasi sempre, scarpe da ginnastica coloratissime, bizzarre, da adolescente: ne ha 15 paia, ne vorrebbe il doppio, si trattiene per pudore, dice alla Stampa. A cena, da lui, non invita mai né più né meno di quattro persone, si è sempre in sei, «perché da sei è il tavolo del mio salotto, ho fatto un’eccezione per Veera Kinnunen, la mia compagna di Ballando, che mi ha chiesto di venire con suo marito e suo suocero, e così abbiamo mangiato in sette». La prima cosa che offre a chi va a trovarlo è un bicchiere di vino e una fetta di salame, spessa, spessissima, che ne vale tre, diciamo quattro. Così è Mughini: parco e intenso. Non si ritiene più «un cittadino del reale perché con il reale non ho niente a che vedere ma faccio la mia parte».
Cosa fa parte del reale?
«Scrivere il libro di Harry».
Significherebbe essere Moehringer, che non è cosa da tutti.
«No, certo, è cosa da Moehringer, scrittore eccelso, eccezionale. Ma il punto è cosa si scrive, di cosa si parla».
Lei di rompicazzo (I rompicazzo del Novecento, Marsilio).
«Gente come Celati, Cioran, Giovanni Ansaldo, Prezzolini, i Rolling Stone. Ne abbiamo tremendamente bisogno: irregolari, discordi, capaci di smentirsi, d’essere imprendibili, di cercare il giusto e il vero fregandosene di sedersi tra i buoni. Ormai estinti, temo, o almeno liquidati. Quando mi invitano a Mediaset a parlarne, dopo "rompi", mettono il bip».
Le dà fastidio?
«Mi fa sorridere».
Vuole che dia fastidio agli altri?
«Ho scritto questo libro pensando che fosse l’equivalente di Compagni, addio, che avevo pubblicato nel 1987 per congedarmi dalla sinistra e dalle sue illusioni, da un’ideologia in parte tradita e in parte sorpassata, inadatta: era l’autorappresentazione morale e intellettuale di chi ero, a quarant’anni. Con questo libro ho scritto l’autorappresentazione morale e intellettuale di chi sono adesso, a ottant’anni suonati. Nel 1987 persi degli amici per quello che avevo scritto (ricordo quella che mi disse che mi avrebbe tolto il saluto e quell’altra che mi telefonò per avvisarmi che, per il mio bene, avrebbe evitato di esprimersi). Oggi, il mio libro non scatenerebbe mai reazioni così. Non dà fastidio a nessuno e nemmeno tocca qualcuno, se non pochissimi: i 15, 20 lettori di cui parlava Manzoni. La differenza mostruosa è data dal peso e dalla crucialità che i libri avevano per la mia generazione venti o trent’anni fa».
Però che i libri arrivassero a 15, 20 persone, Manzoni lo diceva nell’Ottocento.
«Ma non è una questione di numeri: è che dei libri non importa più nemmeno a chi li legge».
I libri cambiano la storia anche se nessuno li legge.
«Forse è vero. Entrano nella circolazione sanguigna di tutti lo stesso. Così spero accada con la parola rompicazzi, declinata come la intendo io».
Cioè come era Pannella.
«Con Pannella ho aperto il libro. Uno che ha fatto sì che questo Paese lottasse per il diritto al divorzio, e veniva dal mondo liberale: i compagni temevano lo scontro con i cattolici. Marco, invece, aveva capito che gli italiani avrebbero votato sì. Io feci un giro in Sicilia con alcuni giornalisti dell’Ora, durante la campagna elettorale del referendum, e incontrammo un uomo che viveva con un mulo in una stalla: ci disse che anche lui avrebbe votato sì. Marco non solo sapeva vedere e intuire su cosa si incontravamo le persone, ma pure era capace di tenere insieme cose distanti e apparentemente inconciliabili. Disse che l’azione dei Gap comunisti romani in via Rasella era stata un suicidio politico, ma che comunque se fosse stato un ventenne romano, nel 1944, avrebbe partecipato a quell’agguato: questa è l’essenza del rompicazzismo. Naturalmente, dopo quelle dichiarazioni, la sinistra ostracizzò Pannella. Che non ne fece certo una malattia».
Ci era abituato.
«Sapeva litigare. E lo faceva con tutti».
Anche con lei?
«Certo. Andai a trovarlo quando stava molto male, ed era accudito da due ragazzi dei Radicali. Non mi salutò, era ancora arrabbiato. Era fatto così. Gli volevo bene e non me ne importò».
Ha anche lei qualcuno che non riesce a perdonare?
«Gli imbecilli. E quindi molte persone. Sono andato via dai giornali perché non sopportavo che ci fossero degli imbecilli a decidere il mio lavoro. Dopo essermi licenziato da Panorama, non sono mai più tornato in una redazione. Scrivo da fuori, scrivo per chi me lo chiede, e mi paga».
Pannella era un liberale, perché in Italia ce ne sono così pochi?
«Io mi sento un liberale calzato e vestito. E un’altra decina me ne vengono in mente».
Decisamente pochi.
«Sono più diffusi i fanatici delle proprie posizioni e condizioni. Questo è un Paese che ha dato il 32 per cento delle preferenze al Movimento 5 Stelle alle penultime politiche. E alle ultime gli ha dato circa la metà. L’Italia non è il Paese dell’Einaudi».
Purtroppo?
«Chissà».
Giorgia Meloni la convince?
«Persona capacissima e, soprattutto, responsabile. Ho amici di sinistra che l’hanno votata».
Renzi le piace ancora?
«Certo. E ci ha dato Draghi. E immagino si sia divertito a vedere che siamo stati capaci di mandare a casa anche lui, dimostrando che Paese siamo».
Destra e sinistra esistono?
« Non più, è roba della Rivoluzione francese».
Però lo si dice sempre solo a proposito della sinistra.
«Perché la destra è ancora in fieri, non si è smarcata del tutto dal rimando al 1922».
Sta costruendosi una sua egemonia culturale, è vero?
«So solo che di intellettuali di sinistra che scrivano bei libri non me ne vengono in mente. Di destra, invece, sì».
Me ne dica uno.
«Stenio Solinas, uno tra i migliori giornalisti culturali».
Perchè questo Paese si affeziona e disaffeziona in tempo record ai fanatici?
«Quando racconto Cioran, ricordo che scrisse: "Chi ha tra i venti e i trent’anni e non dice sì al fanatismo, al furore e alla demenza è un imbecille". Ci si deve passare, nel fanatismo. Io l’ho conosciuto, attraverso la mia generazione, che ha espresso i terroristi delle Brigate Rosse. E se non l’avessi conosciuto, non sarei il liberale che sono. Cioran era stato vicino alle Guardie di Ferro, ma cambiò idea quando conobbe un intellettuale rumeno ebreo che venne poi arrestato dai nazisti, insieme alla sorella, e fece di tutto per salvarlo, e quasi ci riuscì, solo che quello non volle lasciare sua sorella sola in galera, e quindi venne deportato con lei ad Auschwitz. A quel punto, diventò lo scrittore che conosciamo».
Cos’è la grande letteratura?
«Una cosa che non sarebbe possibile oggi. La vetta del possibile per Proust, Tolstoj e Balzac non era certo quella di oggi».
Qual è quella di oggi?
«TikTok»
Dovrebbe usarlo.
«Non ne possiedo il linguaggio. E poi cosa frega a un sedicenne di me?».
Come fa a saperlo? Ci parla con i sedicenni?
«No, ma vedo come loro non parlano con me».
Dovrebbe essere lei a parlare con loro.
«Per fargli una predica? Suvvia».
Li guarda da lontano, come tutti. È un errore.
«So che quando li incontro per strada, mi dicono "Forza Juve", perché l’unica cosa che conoscono di me è quella».
Perché l’hanno vista in tv a parlare di quello. Se lei andasse su TikTok a parlare d’altro, magari a qualcuno di loro accenderebbe un interesse diverso, a qualcuno potrebbe cambiare la vita, o almeno lo sguardo.
«Non mi rovini la mattinata, per piacere».
Ma scusi. L’esistenza di TikTok dimostra che i ragazzi desiderano comunicare: è compito di tutti arricchirlo di contenuti migliori.
«Non sento questo dovere».
E quale dovere sente?
«Scrivo sul Foglio una rubrica che leggono in venti e sono certo che non li deludo».
Troppo facile rivolgersi a chi sappiamo che ci capirà.
«Io ho ottant’anni, sono quasi alla fine del viaggio».
Dice Vittorino Andreoli che i vecchi sono il futuro e che la vecchiaia non è un’età di deperimento ma di scoperta.
«Vero. Vitaliano Brancati in un suo diario scrisse "Oggi ho compiuto quarant’anni", sentendosi arrivato quasi alla fine. Io a settant’anni mi sentivo un ragazzino».
E a ottanta?
«So moltissime cose in più, sono più bravo a fare il mio lavoro. Ma dimentico i nomi, forse perché non sono importanti».
Perché in Italia i vecchi schiacciano i giovani?
«Perché sono più ricchi. E poi credo che giovani e vecchi non riescono a entrare in relazione perché non abbiamo ancora digerito le due grandi tragedie del Novecento che in questo Paese hanno avuto uno spazio enorme: il fascismo e l’Italo comunismo (che certamente non era una tragedia ma che si riferiva al comunismo come a qualcosa di meraviglioso). Facciamo fatica, in sostanza, a fare i conti con i carichi ideologici che il secolo scorso ci ha lasciato in eredità ed è l’elemento di memoria non condivisibile a rendere difficile i rapporti tra le generazioni».
Che futuro auspica?
«Spero che non cada il recinto che separa la bestialità dalla non bestialità».
Cos’è un amico?
«Qualcuno che ti sta dirimpetto e di cui hai fiducia e rispetto».
Ne ha tanti?
«Senza, che vita sarebbe?».
La rompicazzi con cui chiude il libro è Marina Ripa di Meana.
«È stata la mia migliore amica per anni. Fino alla fine. Passavo da lei e Carlo tutte le vigilie di Natale. Una volta mi scrisse che Carlo non stava bene e che quindi non ci saremmo visti. E invece stava male lei. Morì dieci giorni dopo».
Qual è l’oggetto che le è più caro?
«Un calendario di plastica di Enzo Mari, fatto a quadrotti: spostandoli, si compongono le date. Lo comprai appena arrivato a Roma, negli anni Settanta. Ero poverissimo. Lo vidi in una vetrina e me ne innamorai. Lo uso ancora. La prima cosa che faccio, al mattino, è spostare la data».
Crede ancora che le parole siano importanti?
«Certo».
Questa settimana è morto Charles Simic, che ha scritto: "le parole sono splendide povertà".
«Bellissimo. Mi piace pensare che significhi che alle parole non possiamo appendere delle ideologie, come mi sembra si faccia adesso. Ma questo non cambia il fatto che usare una parola al posto di un’altra è fondamentale in tutte le occasioni del vivere».
E che succede quando uno sbaglia una parola?
«Se lo fa con me, me lo lego al dito. Per sempre».
Qual è il colore della vita?
«Il grigio. In natura ce ne sono 200 sfumature. È il colore degli antagonisti del fanatismo, cioè dei rompicazzo».