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 2023  gennaio 15 Domenica calendario

Storia del mostro di Barbagli

Morivano senza ragione. Morivano anziani e soli. Tutti ammazzati di notte, uccisi nello stesso modo con un unico tremendo colpo alla testa, senza lasciare speranza. Per quarant’anni in alta val Bisagno, alle spalle di Genova, si sono susseguiti ventisette delitti senza ragione apparente, attribuiti a un mostro che non esiste: il mostro di Bargagli. E non esiste perché questi omicidi tra il 1944 e il 1983 hanno visto con probabilità più mani agire, adagiando così nell’immaginario collettivo il ricordo inquietante non del volto, del nome dell’assassino o – più raramente – della vittima, come accade per i serial killer o per omicidi clamorosi, ma del luogo, Bargagli appunto, 341 metri sopra il livello del mare, 2.538 abitanti e una lunga scia di sangue che ha spazzato via la memoria di questo paese, lasciando alla cronaca nera la strada e l’onere della storia.
Può essere utile partire dal primo, anzi dall’ultimo delitto, quello della baronessa Anita De Magistris, nobildonna che suonava il piano, prediligendo i compositori italiani e tedeschi. Divideva le giornate tra il coro parrocchiale della chiesa di santa Maria che dirigeva, e misteri e segreti del bosco della Tecosa a Bargagli.
Proprio lì infatti la baronessa aveva comprato casa e stava rientrando nel tardo pomeriggio del 30 luglio 1983 quando venne uccisa con un colpo di spranga che le fratturò il cranio. Un vicino diede l’allarme, la vedova per otto giorni combatté per la vita all’ospedale san Martino di Genova per spirare qualche giorno dopo. Una tragedia fotocopia a un’altra che si consumò sempre vicino a quel bosco: lì era già stato ucciso il 19 aprile del 1944 il marito della nobildonna, Paul Drews, ufficiale della Wehrmacht allocato ai cantieri navali di Riva Trigoso.
E se il ritorno della donna a Bargagli - qualche decennio prima - non fosse stato causale ma spinto dal desiderio di individuare e assicurare alle patrie galere gli assassini del marito? Bisognava mettere insieme i pezzi di un puzzle complicato, una storia di quattrini, interessi, specchi, vendette e silenzi che legavano il delitto del marito e degli altri alla sparizione e alla divisione di un tesoro che – si favoleggia – ammonterebbe a diversi miliardi di vecchie lire, custodito in diverse casse di legno, ovvero la zecca del battaglione tedesco che battendo in ritirata aveva sventolato bandiera bianca ai partigiani.
Tra le casse una era stata affidata proprio dalla baronessa che aveva consegnato monili, ori e preziosi perché potessero rientrare in Germania. Chi mise le mani su quel gruzzolo? Chi e come venne diviso? Chi ha preso la fetta più grande? Tutte domande che scardinavano un patto di silenzio inviolabile pena, appunto, la morte certa e immediata.
Ne deve sapere qualcosa Gerolamo Canobbio, il giardiniere della De Magistris sopravvissuto miracolosamente a un primo agguato a colpi di spranga nel 1972 per poi venire ritrovato mesi dopo morto con il cranio sfondato e tutti gli altri, legati a questo giallo che sono stati uccisi da mani rimaste impunite.
La banda
Ma perché tutto a Bargagli? Qui era di stanza la cosiddetta "banda dei vitelli" fortissima in quegli anni di povertà e mercato nero di ogni cibo commestibile. La "banda dei vitelli" non ha scrupoli, è specializzata nella macellazione degli animali da fattoria fin dal 1941 e la sua nomea si diffonde in tutto il circondario. Un’attività fiorente e illegale che aveva provocato le indagini dei carabinieri. Il brigadiere Carmine Scotti e Candido Cammereri individuano e arrestano gli appartenenti a questo gruppo nel novembre di quell’anno. Il processo conferma le accuse per diversi di loro che rimangono in carcere mentre altri restano liberi unendosi, più per opportunismo che altro, ai partigiani.
Si arriva all’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943 che provoca nell’Arma dei carabinieri una forte migrazione verso i gruppi partigiani tra quei militari che non vogliono unirsi alla Repubblica di Salò. Tra questi ci sono anche Scotti e Cammereri che così abbracciano la Resistenza. Mentre il secondo muore poco dopo in uno scontro a fuoco con i nazisti, Scotti viene catturato dagli ex appartenenti alla banda dei vitelli (rimessa in libertà per sospensione del processo d’appello), torturato con l’accusa falsa di essere una spia dei tedeschi e dei fascisti, e ucciso. Chi si occupa del corpo è Federico Musso, detto Dandaninni, che nasconde il cadavere perché non venga trovato. E in effetti questa mossa complica la ricostruzione dei fatti tanto che per anni non si capisce cosa sia realmente accaduto a Scotti.
Ma la "banda dei vitelli" fa anche altro e il suo nome viene accostato appunto a quelle casse zeppe di denaro portate via il 19 aprile del 1945 a una colonna tedesca in ritirata dai territori occupati.
Nel bosco
Tutto accade a Pannesi di Lumarzo quando le camionette dei nazisti necessariamente rallentano di fronte a una strada che si stringe troppo per percorrerla. Le camionette blindate che trasportano ingenti somme in contanti, ori sottratti agli ebrei e preziosi non possono proseguire. Di lì a poco i tedeschi finiscono in un agguato dei partigiani tra la vegetazione del bosco della Tecosa mentre gli aggressori (banditi o banditi che si fingono partigiani?) possono impossessarsi del tesoro. Le casse di denaro incustodite vengono portate via in fretta, come meglio si riesce. Alcune finiscono sui muli lasciati dai militari, altre a mano. Chi se ne impossessa della gran parte dev’essere la "banda dei vitelli" tanto da provocare gelosie, invidie e reazioni violente. Dopo qualche giorno, vengono uccisi quattro partigiani in una casetta a sant’Alberto di Bargagli mentre si dividevano il contenuto di alcune casse del tesoro. Altre quattro saltano su una mina nella frazione di Borgonuovo, il 26 aprile.
I delitti si interrompono, la ricostruzione raccoglie interessi ed energie e nessuno parla più dei delitti del paese ligure e di quel tesoro. Ma è un equilibrio precario, in tanti mugugnano per le fortune realizzate nel boom economico con i soldi di quelle casse maledette. E così la scia di sangue si allunga ancora. È il turno di Dandaninni che si era occupato del corpo del brigadiere Scotti e viene sentito dai magistrati che indagano sul delitto Scotti: il suo cadavere viene ritrovato in fondo a un burrone nel 1961, sedici anni dopo l’omicidio del carabiniere. E in tanti dubitano che si tratti di uno sciagurato incidente che gli ha fracassato la testa. E così nel 1969 viene uccisa a sprangate Maria Assunta Balletto, ex staffetta partigiana, allo stesso modo, due anni dopo, Cesare Moresco, il campanaro della chiesa di Bargagli, dopo che casa sua era stata messa a soqquadro. Cosa cercava l’assassino o gli assassini? Di certo chi si avvicina ai morti finisce male, come Maria Ricci, che aveva ritrovato il corpo dell’ex staffetta Maria Assunta. Anche lei è colpita dalla spranga ma il sangue freddo le permetterà di fingersi morta e di sopravvivere. Purtroppo non ricorderà nulla dell’aggressione. Tocca poi al giardiniere Canobbio e nel 1974 alla sua presunta amante, Giulia Viacava, anche lei finita col cranio fracassato.
Le piste
Le indagini? All’inizio puntano sul delitto passionale, un altro amante della donna, Pietro Cevasco, finisce nel mirino degli inquirenti, ma mancano le prove e viene ritrovato il 26 gennaio 1976 morto suicida. Si sarebbe impiccato. Poi si ipotizza il movente economico tanto che un ex militare dei carabinieri, Francesco Pistone, 65 anni, disertore nel 1944 per darsi alla macchia, viene monitorato senza successo per poi essere ritrovato anche lui senza vita, suicida. Ogni inchiesta viene archiviata perché, nel frattempo siamo ormai negli anni ’70 e ’80 e molti testimoni o sospettati sono deceduti o irrintracciabili. Ma il mostro di Bargagli continua a uccidere. Quasi sempre con le stesse modalità visto che tredici sono effettuati con il cosiddetto "colpo del macellaio", ovvero un colpo assai forte proprio sulla fronte come si fa per uccidere mucche e vitelli. Siamo nel giugno del 1978 quando Carlo Spallarossa, 63 anni, finisce giù da un dirupo; anche in questo caso si sostenne la tesi dell’incidente quando la testa, sfondata e fracassata, venne ritrovata distante diversi metri dal cadavere. Passano due anni e un bracciante che cura i terreni della chiesa del paese, Francesco Fumera, 70 anni, viene colpito al braccio da un colpo di fucile. Stessa sorte poche settimane dopo a Carmelo Arena, 56 anni, disoccupato siciliano, che morirà dopo cinque giorni di agonia. E si arriva alla baronessa De Magistris con un altro magistrato che vuole vederci chiaro collegando l’omicidio della nobildonna con quelli del brigadiere Scotti, dell’amante Viacava e del giardiniere Canobbio. Vengono compiuti arresti ma poi grazie all’indulto del 1953 per i reati consumati fino al giugno del 1953 i sospettati vengono liberati. E il mostro di Bargagli ancora aleggia come uno spettro su questo paese ma, almeno, ora non uccide più.