Specchio, 15 gennaio 2023
Da un cinghiale di 150 chili 75 salami
Lassù alle pendici della montagna per il cinghiale ormai la vita è grama, i contadini abbandonano i campi e scendono a valle: ci sono sempre meno patate da rubare e meno radici da estirpare. Nella macchia mediterranea la vita è ancora più difficile: la siccità rende faticoso scavare, e la prole invece ha sempre più fame. Allora è assalto alla collina, dove a settembre si bruca l’uva, e in pianura, dove una pannocchia si trova sempre. Ma a forza di emigrare si scopre che si può entrare nei grandi parchi urbani che costeggiano le prime abitazioni, dove il terreno è ricco di faggeti e querce, e ghiande in abbondanza. E poco più in là ecco le luci della città, dove i rifiuti per strada spesso abbondano. E così il cinghiale scopre l’esistenza di un grande supermarket all’aperto, e l’uomo invece un vicino poco gradito. È la legge eterna della catena alimentare. Ci si sposta dove c’è cibo. Una catena appunto, che sta diventando quasi una fila indiana: perché accanto al cinghiale camminano la volpe, il tasso e la faina, e in cielo scrutano poiane e falchi. E alle spalle di tutti c’è il lupo, per il quale i cuccioli di cinghiale sono una ghiotta preda.
La ricerca del cibo ha cambiato il nostro rapporto di abitanti cittadini con gli animali selvatici?. Andrea Monaco, zoologo dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale la vede così. «Le campagne si sono spopolate e le città sono entrate nel territorio. Uno studio fatto con l’Università della Sapienza – spiega – ha rivelato questo: 10 anni fa la presenza di animali selvatici era segnalata in modo non episodico solo a Genova e Trieste. Oggi sono presenti in oltre cento centri urbani». Li spinge il cibo e sono soprattutto i cinghiali a impensierire. «In città arrivano seguendo quelli che chiamiamo “corridoi verdi” – dice Monaco – cioè le connessioni dei parchi periurbani con i centri cittadini, o “corridoi blu”, i corsi d’acqua con le loro rive. Sono animali spavaldi e hanno scoperto un luogo affascinante che per loro può essere un vero sballo: ci sono rifiuti, ci sono gli avanzi dati ai cani e gatti di strada, l’uomo non è ostile, i cacciatori non possono sparare. E si sentono sicuri, come dimostra la foto simbolo delle due scrofe che allattano i piccoli in pieno giorno in mezzo alla strada. In campagna il lupo sarebbe in agguato».
In città il lupo non è arrivato. O meglio, non ancora. È il predatore più pericoloso per i cinghiali, e la popolazione è in costante aumento. L’Ispra ne ha censiti più di 3300, si sono propagati dalle alpi occidentali e quelle orientali e sono presenti in modo massiccio negli Appennini, in Toscana, Emilia Romagna e Marche. Due anni fa un branco ripreso dalle telecamere di sorveglianza esplorava i dintorni della piscina comunale di Grottammare, in provincia di Ascoli, a 500 metri dalla spiaggia. I cinghiali in città, i lupi aspettano in periferia. «Dire che avremo il lupo in città al seguito dei cinghiali forse è un po’ forzato – spiega Monaco- ma è indubbio che il predatore segua le sue prede. Il lupo è un animale diffidente e schivo. Forse vedremo i cinghiali passeggiare davanti al Colosseo, ma il lupo non credo che si farà vivo lì. Il cibo lo trova facilmente fuori».
Per spezzare l’insana catena alimentare, che stravolge l’equilibrio della biodiversità, cosa si può fare? Intanto ridurre il numero dei cinghiali o il loro perimetro d’azione. La Coldiretti, che conta i dolorosi danni prodotti dai 2,3 milioni di esemplari sul territorio (in pratica uno ogni 26 abitanti), capaci di provocare sulle strade o in campagna un incidente ogni 41 ore non ha dubbi: servono gli abbattimenti. L’esercito di doppiette italiane è d’accordo, e non solo per ragioni etologiche: un cinghiale di 150 chili fa a spanne 75 salami. L’Ispra ha dei dubbi che la soluzione siano le cartucce, e lamenta l’esagerata e spesso schizofrenica sensibilità sociale della popolazione che frena il giusto controllo alla proliferazione incontrollata, ostacolando persino le catture. C’è chi spinge per usare i predatori naturali. La vegetazione del parco di Yellowstone è stata salvata introducendo i lupi, che hanno che hanno ridotto la popolazione di cervi. Difficile imitare qui il modello. «Serve più prevenzione – dice Monaco – in città lasciare in giro meno rifiuti e alimentare gatti e cani privati e di quartiere in strutture protette, non accessibili ad altra fauna; in campagna vietare il dannoso foraggiamento che negli anni ha portato, per ragioni venatorie, all’esplosione di alcune specie. È l’uomo che ha manipolato la catena alimentare». Nel Parco del Circeo i daini lasciati liberi, per la fame hanno spolpato la vegetazione fino a due metri di altezza, mettendo a rischio una delle foreste italiane più integre, e lo stesso fanno nel bosco della Mesola, a Ferrara. Situazione identica per i mufloni introdotti all’isola del Giglio. Il viterbese Il viterbese si dice sia invaso dai ghiri, ghiotti di nocciole, ma è l’uomo che ha trasformato il bosco per coltivare la nocciola in modo intensivo. Hanno tutti fame, e fanno danni. Ci lamentiamo? Beh, il cibo glielo stiamo dando noi….