Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  gennaio 15 Domenica calendario

I 90 anni di Liliana Cavani. Intervista

I suoi pensieri felici sono la mamma, i nonni, le zie, gli amici. Da sempre. «Non ho mai avuto una depressione. La vita può essere molto difficile, ma è anche tanto bella», dice alla Stampa, mentre le suona il telefono, l’altro, e si scusa, riattacca, richiama e dice: «Sono quella di prima». Liliana Cavani sta lavorando al suo prossimo film (L’ordine del tempo, ispirato al saggio omonimo di Carlo Rovelli, fisico), il trentacinquesimo di una carriera che ha dedicato a indagare il mistero dell’uomo, e la sua ricerca, e il suo smarrimento. Ha raccontato la fede, il perdono, la vendetta, Antigone, Galileo, Nietzsche, il nazismo, lo stalinismo, i manicomi, i conventi, le partigiane. E San Francesco, tre volte. La prima e l’ultima, nel 1966 e nel 2014, in due serie tv per la Rai. La seconda, nel 1989, per il cinema, in un film con Mickey Rourke nella parte di Francesco: Papa Wojtyla volle vederlo seduto accanto a lei, in una piccola sala con altri quattro cardinali; a un certo punto, le prese la mano e la ringraziò. «Ho sempre ammirato il fatto che Francesco non si sia opposto alla Chiesa: per lui, la rivoluzione nasce nel cuore di ogni uomo, è un cambiamento personale, intimo. L’esatto opposto di quello che di solito le rivoluzioni impongono, e cioè persuadere gli altri, trasformandosi per questo, poi, nella maggior parte dei casi, in dittature».

Il 12 gennaio, Cavani ha compiuto novant’anni. Vittorio Sgarbi le ha organizzato una festa al ministero. Ci sono andati tutti. Gli attori, i registi, le poetesse, i sottosegretari, gli ineludibili. «Sembrava un’assemblea d’istituto», ha detto il ministro Sangiuliano, che l’ha aiutata a tagliare la torta, una di quelle antiche, senza glassa, solo panna, rose rosse, la scritta "Auguri" e una candelina, molto lunga, sottile. «Pensavo saremmo stati in venti», ha detto lei, che indossava una giacca di velluto e, sotto, una maglia a righe, da eterna ragazza, come la chiamano i giornali. L’Italia, oggi, l’abbraccia.
Cavani, si sente amata?
«Mi ci sono sentita molte volte».
Questo Paese ha capito il suo lavoro fino in fondo?
«Non sempre, e per motivi diversi. Quando uscì Il portiere di notte, nel 1974, lo presero per un porno, e censurarono una scena di sesso perché una donna stava sopra un uomo. Ho fatto un film su Galileo Galilei per conto della Rai, che però lo cedette a Rizzoli, che in quel momento stava fallendo e allora a sua volta lo cedette a Mediaset, che ne detiene tuttora i diritti ma non l’ha mai trasmesso».
Peccato.
«C’era un attore irlandese meraviglioso, e poi lo avevo girato a Sofia, in una specie di Cinecittà che avevano lì. Era la prima volta che una produzione italiana collaborava con la Bulgaria. Ne andavo tanto fiera».
È stata incuria o censura?
«Sono situazioni, diciamo così. Nel film io mostravo il rogo di Giordano Bruno, capisco che potesse far temere una reazione avversa della Chiesa, ma la Chiesa si evolve, e lo ha dimostrato. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo fu messo all’Indice nel 1633. Nel 1992, 359 anni dopo, Wojtyla ammise l’errore. Evidentemente, non è bastato».
Lotterebbe, oggi, per quel film?
«Magari non servirebbe. Magari a Mediaset si sono semplicemente dimenticati di averlo. Io dico soltanto che sarebbe utile proiettarlo nelle scuole, ma nelle scuole sarebbe utile fare un sacco di cose».
Ne dica una.
«Studiare storia molto di più, ci vogliono più ore, bisogna che i ragazzi conoscano l’epoca contemporanea. È assurdo che sappiano più della guerra del Peloponneso che delle due guerre mondiali».
È bello che lo dica una laureata in Lettere classiche.
«Ero innamorata dell’archeologia, da ragazza. Lo sono ancora».
E perché ha scelto un mestiere così diverso?
«L’archeologia dice chi siamo. Il cinema prova a raccontarlo. Sono mestieri diversi, ma girano intorno alla stessa cosa».
La affascina la ricerca.
«La vita non è che ricerca».
E la affascina anche la fede, che è un’altra ricerca.
«Non credo che affascinare sia il verbo giusto. Ho conosciuto molte persone di fede, e ho capito che averne è possibile e, di più, è un diritto, così come lo è non averne».
Ma ha girato tre film su San Francesco.
«Perché lui si interrogava continuamente sul perché esista la ferocia, perché non riusciamo ad amarci come dovremmo, cos’è l’uomo. Ed è stato il primo a parlare di fraternitas, ricordandoci che se non ci occupiamo degli altri, non ci occupiamo dei nostri fratelli. Fraternitas, poi, è una delle tre parole d’ordine della Rivoluzione francese».
Lei crede alla rivoluzione?
«La vedo come mio nonno vedeva il progresso: qualcosa che, prima o poi, accadrà».
Il suo nonno anarchico antifascista.
«Sposò mia nonna, che veniva da una famiglia cattolica, con rito civile, s’immagini lo scandalo. Era un sindacalista, con il fascismo ebbe un sacco di guai: né sua moglie né i suoi genitori, però, gli fecero mai mancare il sostegno».
Ha sempre detto di aver imparato ad amare il cinema grazie a sua madre.
«Mi ci portava sempre lei, raccomandandosi di non dirlo a casa. A volte guardavamo gli spettacoli in piedi, a volte mi lasciava lì e andava chissà dove».
Ricorda il primo film che ha visto al cinema?
«Certo. Era La corona di ferro. Ho in mente l’immagine, limpidissima, di una corona che affonda nel terreno».
Il futuro la spaventa?
«No. Però a volte per credere nel progresso mi devo sforzare. E allora mi viene in soccorso il pensiero delle ragazze che studiano, delle donne che inventano, scoprono. Vorrei che i giornali le raccontassero di più. Sono bravissime, così brave che immagino facciano paura, che sembrino rivali. Ma dobbiamo cambiare pensiero su questo, e devono farlo soprattutto gli uomini: le donne sono compagne, non rivali».
Giorgia Meloni le piace?
«È una politica di lungo corso e una donna intelligente. Penso che possa governare bene. In questo, rientra anche la possibilità che sbagli. Ho paura dell’enfasi che c’è stata sulla prima premier donna, perché ho paura che al primo errore si possa trarre la conclusione che non fosse adeguata perché donna. Siamo lontani, molto lontani, dal considerare normale avere tanto un premier donna quanto un premier uomo».
Come sta la sinistra?
«La sinistra non ha saputo esprimere una leader, eccome come sta».
È vero che nel Pci e, in generale, a sinistra, ci sono sempre stati un sacco di maschilisti?
«Io non ne ho incontrati. Anzi. Semplicemente, purtroppo, aiutare le donne ad arrivare al vertice non è mai stato nei programmi».
Perché le donne non hanno combattuto abbastanza?
«Le donne non hanno fatto che combattere, altroché».
Lei è femminista?
«Può, una donna, non esserlo?».
Che cosa pensa del premio a Kevin Spacey?
«Che non è opportuno premiare qualcuno indagato per molestie. Si poteva aspettare».
Ha paura del tempo che passa?
«Forse non esiste, il tempo. Io non mi sono mai posta il problema. Ho sempre lavorato. E non capisco questa smania di orologi che hanno tutti. Capisco, invece, la fretta, ma se hanno fretta cosa perdono tempo a fare a guardare l’orologio?».
Lina Wertmüller diceva di non sapere quanti anni avesse.
«Faceva bene. Era una donna eccezionale».
Eravate amiche?
«No, ma ci siamo sempre stimate e rispettate».
Alla morte ci pensa?
«Poco. È un fatto naturale, accadrà, ci ho fatto la pace. Si dice sempre che si muore soli, ma la morte ci accomuna tutti, in fondo ci mette insieme, e questo me la rende meno spaventosa».