La Stampa, 15 gennaio 2023
Dante secondo Prezzolini
La prima cosa da dirsi, intorno a Dante, in un libro sulla civiltà italiana, è che egli resta il più grande degli Antitaliani, come potrebbero chiamarsi i giudici severi e i critici implacabili degli italiani. La forza dominante, la probità e la fede incomparabili, l’unità di poesia, pensiero ed azione, fanno di lui l’eccezione più impressionante e l’antitesi più grande del carattere degli italiani.
Quando alla sua fama nel mondo, Dante è l’italiano più famoso, proprio come Shakespeare è l’inglese più famoso. Ma Dante occupa una posizione unica e sola nella civiltà italiana, perché la sua opera influì poco e produsse scarsi effetti sulle abitudini e sui costumi nazionali. Forse si può dir lo stesso di Shakespeare, dell’autore, cioè, di tutta la Letteratura inglese, più citato dagli anglosassoni; ma ai latini questi non sembra moralista, né così formalista e puritano come appaiono gli anglosassoni. Si direbbe quasi che questi due autori ebbero molti lettori e pochi imitatori.
Sarebbe il caso di chiedersi se Shakespeare non sia più meridionale di Dante, e Dante più nordico di Shakespeare. Certo, la libertà e la franchezza di espressione di Shakespeare mal si conformano alla abituale ipocrisia del comune modo di parlare tipico del gentleman inglese, mentre il rigore logico e l’unità di pensiero e di azione di Dante poco hanno a che fare con la rilassatezza morale comunemente associata al carattere italiano.
È difficile ammettere che la civiltà italiana sia stata “dantesca” e che la civiltà inglese sia stata “shakespeariana”.
Tratto da “L’Italia finisce” (ed. Rusconi)