La Stampa, 15 gennaio 2023
La fuga dei colossi dalla Cina
Piccoli draghi crescono. E il Dragone più grande rischia, in parte, di rimpicciolirsi. Il Sud-Est asiatico attrae sempre di più le grandi aziende internazionali, che cercano di limitare la loro esposizione alla Cina. In molti spostano altrove parte della propria produzione dalla Repubblica popolare. Una tendenza cominciata con l’inizio della guerra commerciale, ma che si è intensificata negli ultimi tempi a causa delle interruzioni alla produzione causate dalle politiche anti Covid di Pechino e dall’aumento delle tensioni geopolitiche. Fenomeno in accelerazione sia per quantità sia per qualità. Fino a qualche tempo fa erano soprattutto le aziende manifatturiere a basso valore tecnologico a rilocalizzare alcune linee produttive. Ora invece iniziano a farlo anche i big dell’alta manifattura hi-tech. O persino colossi dell’automotive come Tesla.
Secondo Bloomberg, la creatura di Elon Musk è vicina a siglare un accordo per la costruzione di una fabbrica in Indonesia. L’impianto produrrebbe fino a un milione di auto elettriche all’anno e sarebbe solo il primo di una serie di altri impianti. Nel mirino di Musk non c’è solo un mercato di consumatori in netta crescita, ma anche le risorse minerarie di cui è ricca l’Indonesia. La scorsa estate, dopo un incontro col presidente Joko Widodo, il tycoon ha siglato un accordo da 5 miliardi di dollari per la fornitura di nichel, elemento fondamentale per la produzione di batterie.
Il progetto indonesiano di Musk prende corpo proprio mentre Tesla ha sospeso l’ampliamento dello stabilimento di Shanghai. Il governo cinese pare essere preoccupato dai legami con Starlink e gli affari iniziano a declinare. L’azienda non ha raggiunto i target di vendita e l’indebolimento della domanda (anche a causa di una maggiore concorrenza) ha costretto l’azienda ad abbassare il prezzo delle sue auto, arrivato al 40% in meno rispetto a quello applicato negli Stati Uniti. Così Musk sembra guardarsi intorno. Oltre all’Indonesia, Tesla ha già aperto degli showroom in Thailandia.
Ad attrarre molti investimenti in uscita dalla Cina è soprattutto il Vietnam, la cui economia è sempre cresciuta anche durante la pandemia: +8,02% nel 2022, con un boom del 13,5% degli investimenti diretti esteri. Grandi protagonisti i giganti dell’elettronica. Da HP a Dell, da Google a Meta, tutti vogliono ridurre l’esposizione alla Cina della propria catena di approvvigionamento. Compresa Apple, i cui fornitori come Foxconn e Pegatron stanno mettendo radici ad Hanoi e dintorni. Entro la prima metà dell’anno, una parte dei MacBook di Cupertino sarà prodotta proprio in Vietnam, uscendo per la prima volta dalla Cina. Una mossa che smentisce chi immaginava che la migrazione non avrebbe coinvolto prodotti di alta qualità. La produzione della maggior parte dei server per data center delle maggiori aziende digitali si è spostata invece in Thailandia.
Oltre alle fuoriuscite, appare ora più complicato attrarre nuovi investimenti. Di chi mette per la prima volta piede in Asia, o invece di chi vuole ampliare la sua presenza. È il caso della danese Lego. Il gigante dei giocattoli ha preferito il Vietnam per costruire la sua prima fabbrica a emissioni zero. Un progetto da un miliardo di dollari che rappresenta uno dei principali investimenti europei nel paese del Sud-Est, col quale l’Ue ha peraltro siglato un accordo di libero scambio. «Per la prima volta in 20 anni di crescita, credo che la Cina stia affrontando lo stesso dilemma del resto del mondo. Come convincere i nuovi investitori a puntare sul proprio paese e non su un altro?», ha detto al South China Morning Post Bruno Jaspaert, amministratore delegato del parco industriale vietnamita Deep C. Secondo gli analisti, resta difficile immaginare che la Cina possa essere sostituita come fabbrica del mondo. Ma sceglierla non appare più obbligato. Anzi, sempre più spesso c’è chi decide di spostarsi altrove.