La Stampa, 15 gennaio 2023
Tunisia, il grande ricatto sui migranti
Il 6 gennaio una barca partita dalla costa di Sfax trasportando circa quaranta persone è naufragata all’altezza di Louata, a Nord della Tunisia. Cinque persone sono morte, venti sono state riportate a terra dalla guardia costiera e sono almeno dieci quelle ancora disperse. È l’ennesimo naufragio di un barchino sovraffollato partito dalle coste nordafricane e diretto verso le coste italiane, l’ennesima lista di nomi che va ad aggiungersi ai 25 mila morti e dispersi dal 2014. Numeri raccolti dal Missing Migrants Project dell’Oim, Organizzazione Internazionale per le migrazioni, dati solo parziali che hanno reso il Mediterraneo Centrale la rotta migratoria più pericolosa al mondo.
I dati sull’incremento costante degli arrivi dalle coste tunisine si uniscono al bilancio 2022 sui morti proprio alla vigilia dell’annunciato tour del Ministro degli Esteri Tajani in Turchia, Tunisia e Libia. Sui tavoli il dossier che da anni definisce i rapporti tra Europa, coste sud e Nordafrica, il controllo delle frontiere. La politica estera italiana ha fatto della militarizzazione dei confini e dei processi di rimpatrio i cardini su cui si reggono le relazioni diplomatiche, è stato così con Minniti, con Di Maio, con Lamorgese e oggi con Tajani e Piantedosi, ma se a fronte di politiche sempre più restrittive i numeri delle partenze, degli sbarchi e soprattutto il numero dei morti hanno continuato ad aumentare, vuol dire che l’ossessione dell’esternalizzazione dei confini ha mostrato la sua inefficacia e l’incapacità della politica di leggere un fenomeno in costante mutamento e adattamento. Il caso tunisino fa scuola: se fino a pochi anni fa, secondo i dati di State Watch Eu, un ente di ricerca di base a Londra che analizza gli standard democratici e i movimenti civili nel mondo, il 75% dei migranti che lasciano la Tunisia aveva tra i 20 e i 30 anni, da tempo il fenomeno si sta trasformando, non sono solo uomini adulti a partire, ma moltissimi minori e intere famiglie pessimiste sul futuro del Paese e rassegnate all’impossibilità di cambiare la condizione politica, una presidenza - quella di Kais Saied, eletto a furor di popolo nel 2019 - che si è trasformata in tre anni in un regime di fatto riportando l’orologio del Paese indietro di dieci anni. E qui c’è il nodo della questione, cioè quanto le politiche securitarie dell’Europa abbiano peggiorato le condizioni sociali dei Paesi che avrebbero invece dovuto contribuire a stabilizzare.
Il fallimento del caso libico avrebbe già dovuto fare scuola: dal 2017, Minniti ministro dell’Interno del governo Gentiloni, l’Italia supportata dall’Ue ha cercato di rendere la Libia l’argine delle partenze, sostenendo la Guardia Costiera, supportando il Paese nell’istituzione di una zona SAR e tentando di stabilire i perimetri di un accordo tra le tribù in conflitto. Il Memorandum d’Intesa, tuttavia, ha dimostrato la sua incapacità di rispondere al problema, le partenze dalla Libia sono aumentate, l’utilizzo dei soldi nel Paese non riesce a essere monitorato e parte del traffico anziché interrompersi si è spostato a ovest, in Tunisia e i trafficanti hanno aumentato i movimenti da Sfax, Zarzis e Mahdia. Questo perché le strategie europee si basavano su un principio che ha dimostrato la sua fallacia, cioè che le partenze potessero essere interrotte, invece le reti del traffico da anni hanno mostrato che quando una rotta si chiude, se ne apre un’altra. Tendenzialmente più pericolosa.
Un fenomeno in continuo adattamento
«Di fronte ai cambiamenti del fenomeno migratorio e all’inefficacia delle politiche messe in atto finora, l’Europa, invece di mettere in piedi una reale politica di supporto alla democrazia tunisina, è rimasta autocentrata e ha continuato a rafforzare la gestione delle frontiere con militarizzazione e rimpatri», dice Sara Prestianni, esperta di migrazione che studia i processi di esternalizzazione dei confini nel Mediterraneo da vent’anni, e oggi è responsabile migrazione e asilo di EuroMedRights. Prestianni ha analizzato gli strumenti che hanno definito le strategie europee negli ultimi anni ed è nettissima nel giudizio: le politiche italiane ed europee non solo non hanno funzionato, ma hanno reso la rotta del Mediterraneo centrale più pericolosa di prima. «La politica italiana ha considerato l’aumento dei rimpatri un successo al punto da aver istituito un fondo di premialità di cui la Tunisia resta primo beneficiario - spiega Prestianni -. Significa dire a uno Stato: più persone riporti indietro coi rimpatri, più otterrai denaro, senza valutare gli effetti sociali dei rimpatri. Non ci si chiede mai quale sia il costo di queste politiche, che fine facciano le centinaia di tunisini che partono dall’Italia dopo essere stati arrestati nei Cpr, spesso ostacolati nei processi delle domande d’asilo, e destinati ai voli che li riportano in Tunisia: si ritrovano ancora più poveri nelle già depresse regioni di origine, spesso nel Sud del Paese».
Per ridurre il numero degli sbarchi l’Italia e l’Europa hanno stanziato milioni di euro, nel recente piano d’azione per il Mediterraneo Centrale annunciato nel novembre del 2022 dalla Commissione Europea, il primo punto è il rafforzamento della cooperazione con i Paesi della sponda Sud, vengono chiaramente citati Tunisia, Egitto e Libia, e si parla di una somma pari a 580 milioni di euro del fondo Ndici per il Nordafrica tra il 2021 e il 2023, ma «vale la pena ricordare che questo fondo nasce come appoggio alla cooperazione internazionale alle politiche di sviluppo ma poi, tra i fondi cuscinetto e lo spostamento del 10% del fondo al piano migrazione, si è tradotto nell’applicazione di una visione securitaria di gestione delle frontiere», continua Prestianni. Significa che anche parte dei fondi di sviluppo sono stati drenati alle strategie securitarie e che anche quando si parla di politiche del lavoro e piani di investimento, i fondi vengono stanziati solo ed esclusivamente in funzione della diminuzione delle partenze e dell’aumento dei rimpatri, una logica che risponde cioè agli interessi dell’Europa e non della Tunisia o degli altri Paesi del Nordafrica. È per questo che centinaia di persone anche dopo uno, due rimpatri provano di nuovo a partire, e questo fa della Tunisia lo specchio del fallimento di politiche che non hanno interessa a migliorare il contesto politico ed economico del Nordafrica, ma solo a rimandare indietro le persone senza curarsi degli effetti di medio e lungo termine della politica dei rimpatri.
A marzo 2022 è stata rinnovata la lista dei paesi sicuri prevista nel decreto Migrazione e Sicurezza nel 2019 e la lista comprende oltre a Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Senegal, Serbia, anche la Tunisia. Numeri alla mano, con almeno 1.922 tunisini rimpatriati nel 2020 e 1.872 nel 2021, la Tunisia rimane la principale destinazione dei rimpatri dall’Italia (73,5%), ma la domanda è: che Paese è la Tunisia in cui vengono rimandati i migranti, è davvero un porto sicuro?
Un Paese sicuro?
Nel 2022 tre associazioni - Avvocati Senza Frontiere, il Forum Tunisino dei diritti economici e sociali e l’Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione (Asgi) - hanno pubblicato un’indagine per denunciare le condizioni di detenzione e il trattamento discriminatorio subito dalle persone tunisine, dall’intercettazione in mare, alla detenzione fino al rimpatrio in Tunisia. Secondo l’Asgi la Tunisia è indicata come Paese sicuro solo da quattro Stati membri dell’Ue nonostante negli ultimi anni le organizzazioni per i diritti umani di entrambe le sponde del Mediterraneo denuncino il deterioramento delle condizioni economiche e sociali nel Paese.
Nei supermercati tunisini da qualche giorno sono apparsi cartelli con le condizioni di razionamento dei beni di prima necessità. Mancano pasta e riso, manca il semolino, comincia a mancare il couscous. C’è poco latte, poco zucchero, la gente teme che comincerà presto a mancare anche il pane. In alcune aree del Paese gli scaffali dei supermercati sono vuoti, i cittadini si precipitano nei negozi di alimentari per dividersi le bustine di zucchero, e un cartone di latte, con l’inflazione che ha raggiunto il record del 9,8%. La crisi economica procede a un passo molto più veloce delle manovre di Saied che non stanno funzionando, aumenta il debito pubblico, le catene di approvvigionamento non riescono a rispondere alle necessità della gente e Saied, dopo mesi di negoziato, non è ancora riuscito a ottenere il prestito di quasi 2 miliardi del Fondo Monetario Internazionale. Il segretario generale del potente sindacato generale del lavoro tunisino (Ugtt), che già in passato ha fatto muro contro le condizioni poste del Fondo monetario internazionale, di fronte alla richiesta di tagliare i salari pubblici, ha annunciato un’ondata di scioperi che rischiano di paralizzare ancora di più l’economia. In piena crisi economica, il presidente Saied ha tenuto un referendum costituzionale e elezioni legislative. La nuova Costituzione, approvata il 26 luglio, concede poteri quasi illimitati al presidente senza forti tutele per i diritti umani. Un mese fa, il Paese è stato chiamato alle urne e ha disertato il voto.
Sfiduciati dall’implosione della democrazia, i tunisini hanno boicottato le elezioni, ha votato solo un tunisino su dieci, ultimo passo del percorso restrittivo di un presidente che ha in un parlamento multipartitico un mero orpello cerimoniale sottomesso ai voleri, agli umori e agli uomini di un uomo solo al comando.
Diritti civili sempre più a rischio
A rischio non è solo l’economia, ma anche la libertà d’espressione e i diritti civili: una settimana fa Ayachi Hammami, avvocato, difensore dei diritti umani, noto per l’attivismo contro il regime di Ben Ali e già ministro del primo governo del presidente Kais Siaed, è finito sotto processo per aver criticato il sistema giudiziario. L’avvocato Hammami, che è stato al vertice del Ministero dei diritti Umani e dei Rapporti con gli Organi Costituzionali e la Società Civile, è stato citato in giudizio ai sensi della legge 54 emanata pochi mesi fa che sanziona l’uso dei social network e di altri mezzi di comunicazione che diffondano false informazioni, uno strumento teso cioè a dissuadere i dissidenti dal denunciare la condizione dell’economia e del mancato rispetto dei diritti nel Paese. Non sorprende, alla luce del caso Hammami, il rapporto pubblicato il 12 gennaio da Human Rights Watch (Hrw). Nel 2022, scrive l’organizzazione nell’annuale rapporto: «sono continuate le gravi violazioni dei diritti umani, comprese le restrizioni alla libertà di parola, la violenza contro le donne e le restrizioni arbitrarie dovute allo stato di emergenza del Paese». Il quadro disegnato da Human Rights Watch è quello di un Paese in cui le autorità adottano misure sempre più restrittive contro oppositori critici, personalità politiche, imponendo loro divieti di viaggio e obbligo di residenza con vincoli agli spostamenti. «La presa di potere del presidente Kais Saied nel luglio 2021 - sostiene ancora l’organizzazione per i diritti umani - ha indebolito le istituzioni governative progettate per controllare i poteri presidenziali e ha bloccato la transizione democratica del Paese». C’è da chiedersi allora cosa significhi, davvero, la parola "porto sicuro" per le famiglie che lasciano la Tunisia. Sicurezza non è, infatti, solo non vivere in una zona attraversata da un conflitto armato, o dal rischio di essere torturati e rapiti. Sicurezza per una famiglia che decide dove vuole veder crescere i propri figli, significa anche aspirare a un luogo dove ci sia libertà d’espressione, lo sviluppo di una vita democratica e un’economia non vincolata dagli interessi securitari dell’Europa.
La logica del doppio ricatto
La strumentalizzazione politica europea del tema migratorio ha portato di fatto i Paesi della sponda Sud a usare la stessa logica ricattatoria dei Paesi di arrivo. «Negli ultimi anni, dal 2014 in poi - spiega Sara Prestianni - in funzione delle trattative con il governo italiano e con l’Europa, molti Paesi del Nordafrica, tra cui la Tunisia ma anche il Marocco, hanno giocato con l’apertura e la chiusura delle frontiere, rafforzando il controllo per aver soldi e aprendo le frontiere per fare pressione con i Paesi partner. L’esempio più evidente è il Marocco che negli ultimi tre anni ha fatto pressione sulla Spagna prima riaprendo la rotta delle Canarie e poi al passaggio di 20 mila persone dalla frontiera di Ceuta in pochi giorni». Esempi che delineano quanto vincolare le scelte securitarie a flussi di denaro in Paesi instabili finisca con il condannare le politiche migratorie a essere gestite dalla logica del ricatto, pericolosa perché a esserne pedine sono migranti e rifugiati che continuano a morire e perché, insegnano Tunisia, Marocco, Libia e Egitto, finiscono per rafforzare come interlocutori dei regimi autoritari considerati comunque più stabili. Secondo un recente report dell’Ispi la direzione che prenderà l’Europa sarà: dazi più alti per chi non accetta rimpatri, e trattamenti di favore ai Paesi che favoriranno il rientro dei loro cittadini.
Nel suo prossimo tour nordafricano Tajani stringerà mani per aumentare i rimpatri, probabilmente promettendo altri soldi affinché questo si verifichi. Eppure, da anni, è evidente che prima di stringere mani bisogna porre delle condizioni ma invertite, non più: vi diamo soldi se evitate le partenze, ma vi diamo soldi se dimostrerete di saper rispettare i diritti, sviluppare la vostra economia, rendere il vostro Paese un luogo vivibile, davvero sicuro, desiderabile per i cittadini che ora, invece, fuggono.