la Repubblica, 15 gennaio 2023
In morte di Gianfranco Baruchello
Non ha mai smesso di definirsi un pittore. Neanche quando spediva, per posta aerea, lettere ai grandi pensatori della storia, Leopardi, Freud, Spinoza, o scriveva al Pentagono offrendo ninnoli antistress per i soldati in Vietnam, oppure bisbigliava parole dentro flaconi di vetro da sigillare nella sua Oblioteca, la biblioteca delle dimenticanze. Morto ieri mattina a Romaall’età di 98 anni, Gianfranco Baruchello ha continuato a sentirsi un pittore fino all’ultimo, senza pentimenti.
Pochi mesi fa, a chi gli chiedesse ragioni della sua vocazione eclettica, confessava: «Tutto serviva al mio lavoro di pittore, più che alle mie attività di cineoperatore selvaggio». Poche parolesobrie. Orfane di egolatria. Con una vena di romanticismo che aleggiava attorno a quel termine (pittore) dal suono antico rispetto alla versatilità della sua ricerca ibrida di linguaggi. Così il maestro dell’arte concettuale italiana che aveva stregato persino Duchamp, si è dedicato contemporaneamente al disegno, alla scultura, all’installazione, al video, alla performance, con una libertà tanto vorticosa da mandare all’aria ogni etichetta. E ogni traccia della sua formazione originaria.
Nato a Livorno nel 1924, laureato in giurisprudenza con un inizio di carriera nel settore chimico e col lancio di una società di sperimentazione biomedica, abbandonò la via aziendale per l’arte, «per la pittura» ribadiva caparbio. Da Parigi a New York, frequentò scrittori e poeti, artisti come Sebastian Matta o John Cage. Studiò filosofia e antropologia, lavorò accanto ai Nouveaux réalistes di Pierre Restany, espose a Manhattan dal mitico gallerista imprenditore Sidney Janis (altro eclettico), mescolando i modi del pop a una sintesi radicale. Nutrendosi di immagini massmediatiche, televisive, aveva optato infatti per un azzeramento assoluto, fino a ridurre tutto in coriandoli. Miniaturizzando il nostro paesaggio quotidiano in un nubifragio di dettagli, Baruchello ha costruito un palazzo enciclopedico con mattoni di concetti sociopolitici, ambientali (precorrendo i tempi), letterari e psicanalitici. Ancora a novant’anni portati dall’alto della sua figura statuaria, spiegava con soave accento toscano la sua idea di arte, come cibo per la mente. «In atelier nascono cibi che si chiamano fantasia e immaginazione» diceva, anzi sussurrava, rollando fra le mani il pomello del suo bastone con eleganza da gentiluomo di campagna, dal bel profilo etrusco. Gli mancavano i segugi, ma la tenuta ce l’aveva. Quella che, durante gli anni di piombo, decise di fondare sulle colline romane, in via di Santa Cornelia; la celebre Agricola Cornelia. Qui ettari su ettari di terra allora destinati alla speculazione edilizia, sono stati riconvertiti in natura. Una sorta di happening ecologico lo ha visto bonificare e piantare alberi, erbe, cespugli, orti, giardini, secondo uno schema preciso: una mappa del cervello, un luogo fisico dove coltivare il pensiero. Ora, la tenuta è sede della fondazione che porta il suo nome, sostiene autori emergenti ed è aperta a ricercatori interessati a studiare quel sistema complesso di relazioni fra etica ed estetica, cultura e creato che ha animato per oltre sessant’anni la sua opera.
Non stupisce che i suoi ragionamenti liquidi lo abbiano legato intimamente al grande Duchamp, maestro e amico, frequentato per vari lustri e che gli insegnò il valore delle dicotomie, fra visibile e invisibile, materiale e immateriale. Perché «art is the gap» diceva Marcel. L’arte è il divario. È quello spazio vuoto che sta in mezzo a tutto ciò che vediamo. Al pittore spetta il compito di coglierlo e descriverlo in un fiume di disegni che nei momenti di massima concentrazione è sgorgato al ritmo di decine di fogli al giorno, sotto le mani chirurgiche del centauro Baruchello: per metà teorico erudito, per l’altra costruttore di diorami, inventore di alfabeti, archivista di ricordi, miniatore capace di inanellare su carte ampie come lenzuoli parole piccole come granelli. A riprova di questo flusso di coscienza torrenziale, ecco l’icona del lettino da psicanalisi che ritorna nelle sue installazioni. Come nella stanza a cielo aperto piantumata con una giovane quercia al Macro di Roma nel 2015. Ma anche negli ipertesti esposti al Mart di Rovereto nell’antologica del 2018. E, oggi, nella Psicoenciclopedia Possibile, la sua ultima opera, edita da Treccani Arte e presentata al Maxxi la primavera scorsa: un montaggio titanico di 800 pagine, 400 tavole, 1200 voci fra appunti, trascrizioni di sogni, testi editi e inediti. Un vocabolario infinito di lemmi connessi fra loro per associazioni spontanee, prodotte dal suo esercizio di sinapsi, dalla sua mente meravigliosa. A beautiful mind.