la Repubblica, 15 gennaio 2023
La grande bouffe in formato social
Si legge del tiktoker americano diventato famoso perché ingurgitava quintali di porcherie, i cibi scaduti erano il suo piatto forte. È morto di infarto a 33 anni, obeso e iperteso, una specie di prolungato suicidio alimentare in pubblico. Ognuno ha avuto un compagno di scuola che, per far ridere gli amici, mangiava le mosche o la gomma per cancellare. Probabilmente, passata la mattana, è diventato un adulto salutista, ma se la sua platea fosse stata di milioni di persone magari non avrebbe mai smesso di mangiare le mosche. Anzi, per non deludere l’audience ci avrebbe aggiunto anche qualche lombrico. Non credo che l’umanità sia peggiorata (nemmeno migliorata, volendo estendere il ragionamento). Diciamo che si sono molto assottigliate le vie di fuga, e manca il tempo della riflessione – che è poi il tempo dell’esitazione. Puoi mettere in rete il capolavoro o la bravata (più facile, statisticamente, la seconda) e sei comunque, quantitativamente parlando, una star. Per contare i clic non devi nemmeno uscire dalla tua stanzetta, non ci sono teatri, set cinematografici, studi di registrazione da raggiungere, non c’è salita da sudare, strada da guadagnare, tutto è già compreso nell’attimo e nei pochi centimetri del tuo schermo. Vedi il tuo nome e il tuo volto replicati centinaia di migliaia di volte, pensi di avercela fatta: sei famoso. Non importa la qualità dell’azione, importa la quantità della reazione. Credi che i social abbiano fatto di te un artista, hanno fatto di te un contabile. Senza Tiktok è molto probabile che quel povero ragazzo mangione sarebbe ancora vivo. Lo definirei una vittima, ma non del progresso.