Corriere della Sera, 15 gennaio 2023
Una targa per l’untore Gian Giacomo Mora
Che senso può avere la «riparazione» di un’ingiustizia dopo 393 anni? E che valore può contenere la restituzione della dignità a un barbiere innocente, torturato «con atrocissimi supplizi» e ucciso per ordine dei giudici (per la falsa accusa di spargere il virus), nella Milano della peste nel 1630? La prima risposta sta scritta nella targa commemorativa che sarà sistemata nel Tribunale di Milano, e verrà scoperta il prossimo 31 gennaio. Il testo dice: «Milano erigeva nel 1630 e conservava fino al 1778 un monumento di esecrazione e d’infamia verso un umile cittadino di nome Gian Giacomo Mora. A lui e agli innocenti vittime in ogni tempo dei pregiudizi e dei fanatismi restituiscono per sempre dignità e onore i responsabili difensori della giustizia fedeli alla illuminata lezione di Pietro Verri e di Cesare Beccaria, eletta a codice di umanità dalla coscienza morale e civile di Alessandro Manzoni».
Eccolo, il percorso della memoria che cade nell’anno 2023. Ricorrono i 150 anni dalla morte di Manzoni, che con la Storia della colonna infame, ideata come «costola» dei Promessi sposi e pubblicata nel 1842, ha eretto un monumento (letterario) di riparazione. La commemorazione manzoniana diventa però occasione di una doppia riparazione. Verso la vittima dell’ingiustizia, che di fronte alla tortura urlò infine la sua resa nella confessione d’un reato non commesso. Ma anche verso lo stesso Manzoni, per le ragioni che Angelo Stella, presidente del centro studi dedicato allo scrittore, ha spiegato al «Corriere» qualche tempo fa: «La colonna venne fisicamente abbattuta nel 1778. Ma Milano ha rimosso la Colonna infame come se quella storia non fosse mai esistita. A fronte di questa rimozione, è assolutamente necessaria una riparazione, è un fatto di coscienza civile. Va ricordata oggi, nella congiunzione tra il 150° anniversario della morte di Manzoni e la moderna pandemia, della quale ci auguriamo di essere giunti alla fine».
L’idea della targa nasce nella Casa del Manzoni, viene fatta propria e promossa dall’Ordine degli avvocati, infine accolta dalla Corte d’Appello. Riflette il presidente dell’Ordine di Milano, Vinicio Nardo: «Oltre a essere il luogo nel quale si amministra la giustizia, il Tribunale di Milano è anche un luogo d’arte, e la Colonna infame è un pezzo sia della cultura italiana, sia della cultura giudiziaria». Il Palazzo di giustizia accoglierà così al suo interno il ricordo di una vittima che, quasi quattro secoli fa, proprio in questa città venne uccisa da un tribunale. La vicenda umana di Gian Giacomo Mora rappresenta il fallimento della giustizia nella Milano del 1630. «Questa targa commemorativa – spiega il consigliere dell’Ordine degli avvocati milanesi, Andrea Del Corno – vuole recuperare il valore civile e storico della garanzia e tutela dei diritti attraverso Manzoni e Beccaria, il significato vero della giustizia mai oppressiva, ma garanzia di civile convivenza. Un atto simbolico e riparativo che rappresenta un insegnamento anche per il futuro».
I piani del recupero di storia e coscienza civile si moltiplicano ancor più quando si considera infine il luogo nel quale la targa per la Colonna infame troverà posto nel Tribunale: e cioè vicino a un’altra targa, quella che ricorda il giudice Guido Galli, ucciso dai terroristi di Prima linea il 19 marzo 1980, prima che iniziasse una lezione all’università Statale.
Riflette Niccolò Nisivoccia, avvocato e legale della Casa del Manzoni (il cui presidente onorario è Giovanni Bazoli): «La giustizia riparativa, rispetto a Gian Giacomo Mora, può rappresentare forse solo una suggestione, ma certo il senso della frase sulla targa è anche quello di restituire la parola alla vittima, e alla solitudine di tutte le vittime». Nella foto storica che mostra il corridoio dell’ateneo con il cadavere del giudice Guido Galli coperto da un lenzuolo, si vede il codice penale che cadde dalle mani del magistrato mentre veniva trucidato. Il giorno dopo, sul «C orriere », venne pubblicato un articolo di Giovanni Testori: «Il codice che gli era caduto di mano resta aperto davanti agli occhi atterriti dei giovani e di noi tutti. Aperto a dirci cosa? Che la legge dell’umana convivenza è più forte di ogni Caino...».
Nel tempio moderno della giustizia milanese si troveranno così affiancate queste due targhe, memento per due possibili strade verso l’abisso: il sacrificio di chi lavorava per la giustizia; il sacrificio di chi dalla giustizia è stato ucciso in modo ingiusto. L’elemento unificante, che rende accostabile ciò che all’apparenza non lo sarebbe, sta ancora nella lezione letteraria.
Manzoni ha raccontato la devastazione della peste seicentesca, e s’è poi concentrato sulla distorsione ulteriore, quella sulla psicologia: che aveva portato a fare d’una superstizione (che il virus potesse essere sparso con un unguento malefico) una certezza. Da quella certezza derivò la condanna a morte degli «untori»: la giustizia deviata da «rabbia contro pericoli oscuri», una «rabbia resa spietata da una lunga paura». Il punto chiave è che «tali cagioni non furon pur troppo particolari a un’epoca». E qui l’opera di Manzoni contiene anche la risposta alla domanda iniziale (su che senso abbia una «riparazione» dopo 393 anni). È lo stesso scrittore a spiegarlo: «Noi, proponendo a lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo sopra orrori già conosciuti, crediamo che non sarà senza un nuovo e non ignobile frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne ogni volta, si rivolgeranno anche, e principalmente, contro passioni che non si possono bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle». Ecco, in Tribunale sarà possibile «fissar di nuovo» lo sguardo su quelle due «follie»: il giudice integerrimo ucciso dai terroristi; il falso «terrorista» untore ucciso da giudici traviati.