Corriere della Sera, 15 gennaio 2023
Biografia di Riccardo Patrese raccontata da lui stesso
Riccardo Patrese, cominciamo dai trenini? «Volentieri, mi riportano alla gioventù e a Badia Polesine, luogo d’origine della famiglia, che da inizio Novecento aveva lì un’attività commerciale». Apriti sesamo! Eccoci nel sancta sanctorum, l’appartamento di Padova nel quale l’unico italiano che dagli anni Novanta in poi si è avvicinato al titolo iridato della F1 custodisce una collezione smisurata, griffata Märklin, assieme alle automobiline appartenute al fratello Alberto – mancato nel 2003 – e a memorabilia della carriera di pilota.
Badia Polesine fu galeotta...
«Andavo in vacanza dalla zia. Mio fratello, maggiore di 13 anni, aveva i suoi Märklin. Mentre era all’Accademia Militare, li potevo usare. Poi la famiglia s’è trasferita definitivamente a Padova: i trenini ci hanno seguito. Amo collezionare, cominciai la “caccia” a locomotive e locomotori: c’era chi andava per me alle aste».
A Padova lei si iscrisse a Scienze Politiche.
«Mia madre, docente di lettere, insisteva per la laurea. Ma la F1 ha tagliato la testa al toro: studi accantonati. Dispiaciuto di non essermi laureato? Un po’ sì».
Ha provato anche lo sci agonistico.
«E pure il nuoto. Mamma mi portò alla Rari Nantes Patavium: trovavo Novella Calligaris e Amedeo Chimisso, uno dei caduti nello schianto aereo di Brema. Ma nuotare era faticoso e a 11 anni ero già sui kart: così lasciai le piscine».
Non ha sognato i Giochi olimpici?
«Mai. La passione di papà e di mio fratello mi ha dirottato sui motori. Alberto importò un go-kart dagli Usa e me lo fece provare. Andavo forte, ma c’era un limite: niente corse fino ai 12 anni».
I motori uno li ha nel sangue?
«Nel mio caso sono entrati, ma se guardo a mio figlio Lorenzo dico che possono già essere nel sangue: l’avevamo avviato all’equitazione ed era pure bravo. Però aveva cominciato anche con i kart e ha scelto i motori. Aggiungo un “purtroppo”: per lui avevo altre idee».
Perché la F1 la bollava come antipatico?
«L’ha fatto fino al 1985, sull’onda dell’incidente del ’78 a Monza che sarebbe costato la vita a Ronnie Peterson. Pur non avendo colpe, non fu facile per un ragazzo di 24 anni superare la bufera: ero stato sospeso per la gara di Watkins Glen e l’immagine era a rotoli. Mi chiusi a riccio».
Due grandi figure nella sua carriera: Bernie Ecclestone e Frank Williams.
«Bernie mi è sempre stato vicino. Rinunciai alla sua Brabham perché avevo una lettera di Enzo Ferrari per finire a Maranello: l’occasione la sfruttò Nelson Piquet che nel 1981 fu campione. Se ci penso...».
Nel 1981 Ferrari le preferì Pironi.
«Più che il Drake credo sia stato il direttivo. Ecclestone allora mi accolse e nel 1982 a Montecarlo vinsi il primo Gp».
Anziché rimanere, passò all’Alfa.
«Due anni terribili. Nel 1985 ero quasi fuori dalla F1, ma Bernie mi riprese alla Brabham. Nel 1987 stava vendendo il team – cosa che nessuno sapeva – e mi suggerì alla Williams».
Ecco il secondo punto fermo.
«Ma anche qui c’è di mezzo un titolo iridato mancato. Per il 1978 io e Alan Jones eravamo in lizza sia per la Arrows sia per la Williams. Frank era agli esordi, io e Jones prendevamo tempo. Alla fine la Arrows scelse me, così Alan firmò per Williams e nel 1980 vinse il Mondiale: sono le sliding doors della vita».
Lei è stato anche alla Benetton con Briatore.
«Nel 1993 ci siamo lasciati male, Briatore non è stato corretto. Lui e Alessandro Benetton mi avevano voluto a tutti i costi. La macchina non era all’altezza, ma Flavio dichiarò: “Se Patrese si fa battere da Michael Schumacher, è meglio che vada in pensione. Di ragazzini così ne trovo dieci”. Fu un clamoroso errore di valutazione pure verso di me: l’anno dopo al mio posto usò Lehto, che si schiantò subito, poi Verstappen senior che faceva i looping, infine Herbert. In tre non ottennero i punti conquistati da me nella stagione precedente».
Ci racconta dell’incrocio con Enzo Ferrari?
«Volle parlarmi dopo il Gp del Sudafrica del 1978. Il suo ufficio era cupo, ero intimorito. Ma fu gentile e mi fece firmare una lettera d’intenti: “Se cambio Villeneuve, prendo lei”. Non se ne fece nulla, però pretese di pagarmi la penale».
Perché fu il capro espiatorio dell’incidente di Monza?
«Perché volevano proteggere James Hunt, responsabile della carambola. Erano coalizzati in 5, con Hunt in testa. Gli altri erano Jody Scheckter, che mi confessò di essere stato persuaso a dire certe cose; Emerson Fittipaldi, convinto che fossi “selvaggio”; Mario Andretti perché aveva perso il compagno di squadra alla Lotus; Niki Lauda, che difendeva i piloti del giro Philip Morris e che era amico di Hunt, come avrei imparato anni e anni dopo grazie al film “Rush”. Fui processato in un motorhome: Hunt non disse una parola: aveva la coda di paglia».
In tribunale testimoniò contro anche Arturo Merzario.
«Una cosa che mi ferì: non c’è mai stato un chiarimento, resto deluso da lui. In quel processo tanti spararono caz...».
Fu assolto: provò più rabbia o sollievo?
«Più sollievo. Era stata chiesta la galera, dopo 12 ore di processo. Quando il giudice disse “l’imputato si alzi”, be’, il mio stress era palpabile».
Con Hunt come finì?
«Con un “vaffa”. A fine carriera fece il commentatore per la Bbc e non mancava di infangarmi. Un giorno ci incrociammo da Ecclestone: Bernie gli disse che era tempo che mi chiedesse scusa. Ribattè che non doveva farlo, io gli sparai un “fuck off” definitivo».
In auto ha mai avuto paura della morte?
«L’ho avvertita solo con la disgrazia di Senna, che capitò 6 mesi dopo che ero fuori dal giro».
Ma meditava di tornare in F1...
«Proprio a Imola, in quel maledetto weekend del 1994, mi misi a disposizione della Williams per i collaudi: l’auto aveva bisogno di sviluppi. L’idea era di fare coppia con Senna l’anno dopo. Ayrton fu l’ultima persona che salutai nel lasciare l’autodromo: “Ci vediamo al prossimo test”. Poi successe quello che sappiamo».
A quel punto serviva un titolare.
«Williams mi offri il posto, io accettai. Ma per una settimana non ci dormii sopra: avevo 40 anni, mi pareva di sfidare il destino».
Patrese rimane l’italiano più vicino al titolo della F1 dal 1990 a oggi.
«Un secondo posto e due terzi nel Mondiale, il massimo possibile. La McLaren dominava con Senna e Prost: arrivare terzi equivaleva a essere i primi degli altri. Nel 1992 alla Williams, invece, non sarei potuto arrivare altro che secondo: non avevo fatto dei conti che mi furono chiariti a Magny Cours».
Prego, racconti.
«La nostra auto dava 2’’ a tutti, ma si adattava di più a Mansell: Nigel avrebbe vinto comunque. Però avevo cominciato a capire la monoposto e in Francia ero in testa. Ci fu lo stop per la pioggia, in attesa di ripartire Patrick Head mi disse: “Riccardo, forse non hai capito che abbiamo già deciso, da tempo, che il titolo lo deve vincere Nigel”. Rimasi di sale. “Scusa, Patrick, puoi ripetere?”. Silenzio totale. Anche al secondo via andai al comando, ma dopo un giro segnalai in modo plateale di far passare Mansell. Fu l’unico atto polemico».
Quanto le manca il titolo della F1?
«Parecchio. Ripenso alla chimera Ferrari, a Piquet sulla Brabham che avrebbe potuto essere mia, al mio errore nel 1983 a Imola... Di occasioni ne ho avute, ma non ho rimpianti: le cose sono andate così, però nelle giornate migliori potevo battere chiunque».
È stato più forte il Patrese della F1 o quello dell’endurance?
«Il secondo è stato più concreto: 8 vittorie in 41 gare. Ma l’altro è stato sfortunato, a suon di ritiri: ho fatto 3.000 km in testa, ma ho vinto solo 6 Gp; e 19 volte sono arrivato secondo».
Come giudica i piloti di oggi?
«Ce ne sono di “bravetti”, ma li vedo molto “insegnati”: fanno il compito e stop, ai miei tempi si imparava con il fiuto. Hamilton o Verstappen? In questo momento Max ha self confidence e il vento in poppa. È forte, cattivo e pure stronzo, cosa che non guasta. Lewis? Adesso è più simpatico perché ha smesso di dominare. E un Mondiale, nel 2021, gliel’hanno scippato».
La Ferrari è ripiombata nel caos: tocca a Frédéric Vasseur, nuovo team principal, toglierla dai pasticci.
«Negli ultimi tempi mi è parso che mancasse un capo che prendesse le decisioni. E poi c’è stato il “granchio” di voler smentire l’addio a Mattia Binotto quando invece era già tutto deciso».
Cinque figli da due matrimoni.
«Simone è quello che mi ha visto di meno: è del 1977, è nato nel weekend del mio debutto in F1. Si è laureato alla Bocconi, lavora per Jp Morgan. Poi sono venute le due gemelle, classe 1985: Maddalena, che vive negli Usa, e Beatrice, campionessa con i cavalli e oggi istruttrice».
Da Francesca, la seconda moglie, ha invece avuto Lorenzo ed Elena.
«Lorenzo a 16 anni ha corso la 24 ore di Spa-Francorchamps, diventando il più giovane concorrente nella storia della gara. Invece Elena, 8 anni, sta cominciando con lo sci e con i pony: lo sport è il filo che unisce la famiglia».
La passione per il cavallo come nasce?
«Le figlie maggiori mi hanno fatto passare dai cavalli motore ai cavalli veri. Di questo animale ammiro la potenza e tramite un maestro d’equitazione, Andrea Olmi, figlio del grande regista, ho conosciuto la sua etologia. Il cavallo parte dal presupposto di sentirsi una preda: quindi sta sulla difensiva. Ma se mandi i giusti messaggi, dà soddisfazioni uniche».
Il tempo che avanza la spaventa?
«Non mi reputo vecchio, anche se ho già dei nipoti. L’avere una figlia di 8 anni mi fa sentire bello giovane, più papà che nonno».