Corriere della Sera, 15 gennaio 2023
Il pm, Riina, il covo mai perquisito
Il più giovane dei cinque magistrati al cospetto del boss appena catturato, in caserma e sotto una foto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, era il trentaduenne Luigi Patronaggio, sostituto procuratore di turno a Palermo da meno di un anno. Aveva fatto in tempo a lavorare qualche mese con Paolo Borsellino, prima che la bomba di via D’Amelio lo uccidesse dopo Giovanni Falcone a Capaci. «Ricordo la rabbia e la voglia di fare di Borsellino in quei 57 giorni tra le due stragi – racconta —, l’agitazione e la determinazione ad approfondire spunti importanti, tra cui il famoso rapporto su mafia e appalti».
Poi il 15 gennaio 1993, eccolo davanti a Totò Riina, il corleonese regista degli eccidi e degli omicidi eccellenti che da oltre un decennio aveva preso il comando di Cosa nostra portandola alla guerra contro lo Stato, arrestato poche ore prima dai carabinieri guidati dal capitano Ultimo che fermarono in strada, a bordo di una Citroën.
Il silenzio del boss
«L’ho identificato ufficialmente e gli ho notificato i nove ordini di cattura a suo carico», ricorda Patronaggio. Erano nove, uno per una condanna definitiva all’ergastolo. «Gian Carlo Caselli, che aveva preso servizio a Palermo proprio quella mattina, si presentò: “Buongiorno, io sono il procuratore della Repubblica e rappresento lo Stato, se ha qualcosa da dire questo è il momento”. Ma Riina preferì rimanere in silenzio».
Trent’anni dopo, dei magistrati radunati intorno al «capo dei capi» della mafia, Patronaggio è l’unico ancora in attività. Dopo una carriera trascorsa in Sicilia – è stato lui, da procuratore di Agrigento, a ordinare lo sbarco dei migranti dalla Open Arms nell’estate 2019, avviando il processo a carico di Matteo Salvini – oggi è procuratore generale di Cagliari. E definisce il 15 gennaio 1993 «una grande giornata per la giustizia e per i siciliani, rovinata purtroppo dalle successive polemiche».
Operazione sospesa
Il riferimento è alla mancata perquisizione del covo di Riina, e ai conseguenti dubbi e veleni che hanno inquinato quello storico successo. «Era tutto predisposto – prosegue Patronaggio – con i carabinieri del comando provinciale schierati, le macchine pronte e pure gli elicotteri. Ma all’improvviso si decise di sospendere l’operazione, adottando la strategia dell’attesa e del controllo della base, già sperimentata dai carabinieri di dalla Chiesa nelle indagini sui terroristi. Tutti concordarono e io, che ero di turno e avrei dovuto occuparmi della perquisizione, mi adeguai a una scelta che poteva avere un senso, se fosse stata perseguita fino in fondo».
La fine è nota. La sorveglianza del covo fu smantellata poche ore dopo l’arresto del boss, nessuno vide la famiglia Riina uscirne per rientrare a Corleone e nessuno si accorse dei mafiosi che, secondo il racconto dei pentiti, tornarono per portare via tutto. A cominciare dall’archivio di Riina, che chissà se esisteva e se davvero è l’arma di ricatto che – sostiene qualcuno – protegge ancora la latitanza di Matteo Messina Denaro. Ma proprio la perquisizione rinviata e mai eseguita alimenta i sospetti, veri o falsi che siano.
Processi e sentenze
L’idea, ha spiegato l’allora vicecomandante del Ros dei carabinieri Mario Mori, fu del capitano Ultimo, al secolo Sergio De Caprio, e il mancato controllo solo il frutto di malintesi e convinzioni che nella casa dove viveva con moglie e figli il boss non avrebbe mai conservato nulla di importante. Tesi fragile, contestabile e contestata, ma tant’è. Mori e Ultimo sono stati processati e assolti per l’ipotetico favoreggiamento a Riina e Cosa Nostra; tuttavia le sentenze che li hanno dichiarati innocenti e altre che si sono occupate della vicenda (compresa l’ultima sulla trattativa Stato-mafia) hanno sempre definito la loro scelta inspiegabile e fonte di «profonde perplessità mai chiarite».
L’ex magistrato Giuseppe Pignatone (un altro dei cinque pm che videro subito Riina, oggi presidente del tribunale vaticano dopo essere stato procuratore a Reggio Calabria e Roma) l’ha chiamata «una ferita rimasta aperta per la Procura di Palermo, a volte sanguinante, a volte meno». E Caselli, anche lui in pensione, ricorda: «Fu una mazzata che però rafforzò la coesione all’interno dell’ufficio e ci aiutò a superare i veleni».
Il pentito Di Maggio
Una vittoria contaminata, insomma. Ma l’ormai ex capitano Ultimo – in pensione da due anni dopo una «militanza» non semplice nell’Arma e una breve esperienza da assessore in Calabria – continua a rivendicare con orgoglio, in un’intervista a volto coperto sul suo canale web-tv: «Ho provato quello che si prova nella battaglia, la voglia di vincere, di trovare un nemico invisibile e quindi diventare invisibile, riuscire a prenderlo. E lo abbiamo fatto con forza».
Da trent’anni Ultimo rigetta sdegnato ogni sospetto, rovesciandoli contro chiunque osi avanzare riserve su «un’indagine condotta con il metodo del generale dalla Chiesa, clandestinità e compartimentazione, i pedinamenti in strada abbinati al contributo informativo del collaboratore Balduccio Di Maggio».
Era stato l’autista di Riina, preso in Piemonte un mese prima e subito pentitosi con quel biglietto da visita. Fu lui a riconoscere il latitante facendo scattare il blitz. Poi raccontò il famoso «bacio» di Riina ad Andreotti, uscì dal programma di protezione e fu riarrestato in Sicilia con l’accusa di omicidio. Alimentando vecchi e nuovi misteri che seguitano a intossicare la storia della mafia e dell’antimafia.