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 2023  gennaio 14 Sabato calendario

Intervista a Claude Arnaud

In un palazzone al confine tra Parigi e la periferia di Boulogne-Billancourt, in quella parte del XVI arrondissement normalmente piacevole e benestante ma che lì diventa «il brutto sedicesimo», un bambino di 7 anni, Claude, «in un pigiama sintetico che prude», legge un libro sulla Seconda guerra mondiale; il fratello Philippe, sul letto a castello, s’immerge in Chateaubriand; nell’altra camera il maggiore, Pierre, ripassa Tucidide con il dizionario di greco. All’improvviso arriva il padre, ufficiale di marina, e li sorprende: le torce spariscono sotto le lenzuola ma è tardi, sono stati scoperti, il padre s’arrabbia per l’ennesima disubbidienza ma scivola, cade di faccia sul parquet, si spacca il naso. E dire che «sono i suoi ultimi mesi di felicità», scrive Claude Arnaud nel capitolo di apertura. Quella caduta è il segno che l’autorità sta traballando. Presto verranno un quarto figlio ma soprattutto il Sessantotto e l’epoca libertaria e folle degli anni Settanta, che travolgeranno – nel bene e anche nel male – la famiglia.
Che hai fatto dei tuoi fratelli? è un bellissimo romanzo autobiografico che Claude Arnaud, scrittore, sceneggiatore, critico letterario, biografo di Nicolas Chamfort e Jean Cocteau, dedica all’adolescenza sua e di tutta la Francia, quel periodo di contestazione e libertà sessuale che in Italia prese una piega drammatica con gli anni di piombo. Tra i tanti meriti del libro, oltre allo stile preciso e spontaneo, c’è lo sguardo fresco del Claude bambino e poi ragazzino: niente rievocazione nostalgica, nessun giudizio a posteriori, ma il racconto di una scoperta del mondo mentre sta avvenendo, e che finirà per incrociarsi con i drammi famigliari di Pierre che si uccide, di Philippe che scompare nel Mediterraneo, della madre che si ammala e muore giovane.
Gli anni della contestazione sono spes so descritti in altri libri con una patina romantica, col tono di rimpianto verso un’epoca che coincide spesso con la giovinezza perduta di chi la rievoca. Nel suo romanzo la dimensione psicologica e personale è rivendicata, ma senza esaltazione nostalgica.
«Ho cercato di restituire quell’epoca a partire dal mio nucleo famigliare, ripercorrendola per come l’ho vissuta, passo passo. Non è una visione ideologica, non celebro né condanno. È stata un’epoca rivoluzionaria, di distruzione talvolta creatrice e talvolta anche semplicemente distruttrice. Non tutto è da buttare, non tutto è stato indispensabile. La descrivo senza il tono di chi rimpiange e senza il facile discorso ideologico e moraleggiante di chi commenta i fatti quando sono già avvenuti. Sono partito dalla realtà affettiva della mia famiglia, con il mio sguardo da bambino. C’è un capitolo, La crociata dei bambini, che a migliaia raggiunsero Marsiglia dal nord della Francia per imbarcarsi verso la Terra Santa, pronti a tutto. Quello era un po’ il mio spirito, quando arrivò il Sessantotto».
Tutto comincia dal vostro appartamento a Parigi, e dalle vacanze presso i parenti in Corsica.
«Sono realtà contrapposte: a Parigi vivevamo in una specie di non luogo senza identità, un posto che non era né un vero quartiere della capitale né periferia. In Corsica venivo quasi sopraffatto dalla forza e dalla solidità di quel mondo».
Perché il quartiere al confine tra la capitale e la periferia è importante?
«Ha favorito quella specie di vuoto in cui sentivo di trovarmi, e che è stato riempito dall’identità che mi costruii e scelsi negli anni della contestazione».
Il vuoto condizione per la libertà?
«Oggi si tende di nuovo a rinchiudere le persone in un’identità preformata: sei musulmano o ebreo o lombardo... Io invece sentivo di avere carta bianca, ero chiamato a diventare quel che volevo essere. Non c’era un destino personale predeterminato, tutto era da inventare. Quel non luogo in cui abitavamo a Parigi è stato propizio a questo senso di libertà».
L’aspetto personale del Sessantotto e poi degli anni Settanta è molto importante nel suo romanzo.
«Alla fine quel che è stato davvero rivoluzionato non è il capitalismo, non la vita professionale nelle aziende, ma i rapporti amorosi, la sessualità, la condizione della donna e degli omosessuali».
Quella libertà e quella voglia di andare oltre gli schemi non si ritrova di nuovo nella sessualità fluida di oggi?
«Mi pare che la voglia di libertà oggi si concentri molto sul genere sessuale, più che sui comportamenti. È una differenza notevole, perché il cambiamento di genere può essere talvolta una scelta impegnativa, pesante, con conseguenze definitive, e quindi si affronta con grande impegno e gravità».
Voi eravate più spensierati?
«Sì, e la bussola era semplicemente la ricerca del piacere. Nessuno lo nascondeva, anzi, era un criterio rivendicato».
Dal suo libro viene fuori una dimensione gioiosa che in Italia è stata schiacciata dagli anni di piombo.
«Credo che ci sia una grande differenza tra gli anni Settanta in Francia e in Italia. Noi non abbiamo conosciuto la lotta armata: ci sono stati episodi ma per fortuna lo scontro non è andato così avanti come in Italia».
Come mai, secondo lei?
«Forse per la presenza del generale de Gaulle. Il noto centralismo francese ha fatto sì che la contestazione avesse di fronte un centro di potere chiaro e definito, Charles de Gaulle: criticabile certo, ma era pur sempre l’uomo che si era opposto al nazismo e al collaborazionismo di Vichy, l’uomo che con la Resistenza aveva salvato l’onore della Francia o, almeno, tenuto in piedi la facciata. In Italia la situazione era molto più complessa, e nel momento in cui si è cominciato a sparare, con uccisioni e gambizzazioni ogni giorno, lo scontro ha preso un’altra piega rispetto alla Francia. Credo che molti da noi non abbiano capito che cosa siano stati gli anni Settanta in Italia e tendono a sovrapporre le due realtà. Ricordo quando andavo in Italia: le città deserte la sera, tutti chiusi in casa, la paura, il senso di dramma incombente. Ero impressionato. Da noi il clima era molto diverso».
Lei racconta gli incontri con figure come Benny Levy, Michel Foucault, Roland Barthes.
«O anche Hélène Cixous. La distanza tra allievo e maestro era scomparsa, tutti questi nomi erano accessibili al semplice militante trotzkista o maoista quale ero. A volte c’era di mezzo il sesso, non sempre. L’idea che una casa o un letto fossero privati, chiusi, era inconcepibile».
Dalle sue pagine emerge lo scontro con suo padre, e anche un grande affetto. Per lui, e per i fratelli.
«Mio padre ha reagito con difficoltà a quegli eventi, come poteva farlo un uomo di un’altra epoca alle prese con la fine di un mondo e le esperienze omosessuali di un figlio. Ma non era limitato o ottuso. Per esempio aveva un uso meraviglioso della lingua francese, una scelta molto precisa delle parole. Anche i miei fratelli più grandi non hanno retto all’impatto con quegli sconvolgimenti, anche loro erano troppo strutturati e disciplinati per restare indenni. Io ho avuto la fortuna di nascere dopo, ero più elastico e curioso. Ho scritto il libro dopo che, una sera, in ospedale per un’operazione, sono riaffiorati all’improvviso tutti i ricordi dei decenni precedenti. Per me, è un grande atto di riparazione di ciò che è stato, e di amore per la mia famiglia».