Corriere della Sera, 14 gennaio 2023
Intervista a Stefano Righi, uno dei Righeira
Stefano Righi e Stefano Rota. Così due sconosciuti, ma famosissimi come Johnson e Michael Righeira, la coppia che con due canzoni è rimasta incisa nel bronzo del tempo della musica pop. Da «Vamos a la playa» a «L’estate sta finendo», una parabola eterna durata due sole stagioni. Liceo a Torino, Stefano più Stefano sono in classe insieme, diventano amici per la pelle, ma oggi non si parlano più. «Ex punk, ora venduto» è la scritta denigratoria che campeggiava su un muro e che lui ha fatto diventare una raccolta musicale: Johnson Righeira, 62 anni, oggi ha una sua etichetta, la Kottolengo Recordings & Wines. Musica e vino, altra coppia evergreen.
Eravate al liceo insieme...
«Sono finito in classe con lui alla mia prima bocciatura e abbiamo legato istantaneamente, siamo diventati immediatamente sodali. La musica è stato il collante».
A scuola chi andava peggio?
«Tutti e due. Siamo stati anche bocciati insieme. O meglio, Michael si ritirò due volte dalla quarta liceo. Cambiò e andò alle magistrali nel tentativo di essere ammesso direttamente all’ultimo anno ma avvenne l’imponderabile e in pratica fu retrocesso in terza liceo: credo sia l’unico al mondo a cui è capitata una cosa genere».
Come si arriva da Righi a Righeira?
«Ero in prima liceo, non conoscevo ancora Michael. Avevamo un prof sessantottino che ci faceva giocare solo a calcio e per divertimento ci cambiavamo i cognomi alla brasiliana. Come primo nome invece avevo cercato qualcosa di assonante con Hamilton Bohannon, una delle figure chiave della disco music, un mio idolo. Johnson Righeira nella mia testa doveva essere un oriundo, le prime biografie recitavano che ero stato rapito dagli alieni e poi ero ricomparso misteriosamente anni dopo; sognavo palme, avevo in testa un immaginario tropicale ma anche tecnologico».
L’immaginario di «Vamos a la playa», anno 1983...
«Quella canzone a tutti gli effetti è l’evoluzione delle prime cose che avevo scritto, ispirate agli anni 60, da autarchico e futurista quale mi sentivo. Vamos a la playa era sì una canzone da spiaggia ma postatomica, immaginava uno scenario apocalittico fatto di bombe, radiazioni, mare contaminato. I fratelli La Bionda divennero i nostri produttori, ci presero sotto la loro ala e intuirono il potenziale del brano. La mia versione però era molto più dark, new wave, molto cupa, l’idea era il contrasto tra l’andare in spiaggia e le bombe che esplodevano; loro la resero molto piu solare, tanto che del testo non si è parlato per molti anni, nessuno ci ha fatto caso, è stato oscurato dalla melodia».
Un successo travolgente, ma voi nel frattempo eravate a fare il servizio militare.
«Infatti è un successo che non ci siamo goduti. Anzi è stato psicologicamente devastante perché eravamo primi in classifica ma dovevamo stare in caserma. Io usavo le licenze per andare a fare le prime ospitate in tv. A metà estate con il pezzo in testa alla hit sbroccai e mi feci mandare alla neuro per prendere la classica convalescenza da crisi depressiva. Li identifico una sliding door della mia vita perché all’inizio mi rispedirono in caserma; nel corridoio però fermai lo psicologo civile: gli chiesi se conosceva Vamos a la playa e gli dissi che avevo bisogno di 20 giorni per preparare la finale del Festivalbar. Arrivò un capitano che mi fece un gran pippone sul fatto che il militare era una cosa seria. Però mi diede i 20 giorni. E ho capito che qualcosa era cambiato».
«L’estate sta finendo» (1985) fu pubblicata prima dell’estate, un controsenso...
«Infatti la casa discografica era preoccupata, temevano che la gente potesse prendere male questa incongruenza, ma un pezzo estivo non poteva uscire a settembre! Andò bene perché poi abbiamo vinto il Festivalbar».
Come ha vissuto questo schiaffo improvviso di popolarità?
«Con estrema incoscienza: sono passato dal non avere una lira a poter prendere aerei e taxi senza pensarci, potevo scegliere gli alberghi più belli, vivevo nei residence. Ho buttato via un sacco di soldi».
A conti fatti
«Quanto ho sperperato non lo so, anche perché non so neppure quanto ho guadagnato...»
Quanto ha sperperato?
«Non ne ho la minima idea, anche perché non so neanche quello che ho guadagnato»
Tre anni fantastici e poi?
«Sanremo 1986 è stato brutalmente il nostro canto del cigno, arrivammo tra gi ultimi. Lì ci trovammo spiazzati, non eravamo abituati. Ci eravamo creati la fama di quelli che sfornavano tormentoni, da noi si aspettavano quello, ma eravamo dei performer e dei situazionisti più che dei musicisti. Avevamo idee deliranti e una pressione addosso non facile da gestire. Siamo entrati in un vortice negativo che via via ci ha fatto mollare il colpo».
Dal boom alla normalità, come l’ha vissuta?
«Con la stessa incoscienza e serenità. Non sono mai stato con le mani in mano, poi è arrivato il revival anni 80 e con quello la consapevolezza di aver segnato un periodo storico della musica pop italiana».
Vi sentivate incompresi?
«All’inizio eravamo snobbati, ritenuti due imbecilli sia come personaggi sia musicalmente. I critici musicali ci stroncavano e io pativo un casino, mi stava proprio sulle balle ‘sta cosa. Non voglio sembrare presuntuoso ma eravamo avanti».
Nel 1993 lei venne arrestato, assieme ad altre 37 persone, per spaccio. Rimase in carcere per 5 mesi, salvo poi essere completamente assolto.
«Fui messo in mezzo perché la solita notizia locale che avevano arrestato qualche pusher, con il mio nome diventava di rilievo nazionale. Mi crollò il mondo addosso, passai cinque mesi di merda in cui temevo mi potessero condannare. Vedevo tutto nero».
Gli anni Novanta sono segnati da separazioni e reunion. La chiusura definitiva dei Righeira è del 2016.
«Con Stefano c’è stato un progressivo allontanamento culminato in una lite che ha sancito la separazione. Ho continuato a fare serate da solo e da tempo non ci sentiamo più».
L’ultima lite?
«Uno scazzo dovuto a un progressivo aumento di incompatibilità, niente di specifico, ma non ci sopportavamo più».