Robinson, 14 gennaio 2023
Intervista a Massimo Capaccioli
Penso all’astronomo come al fabbricante di cieli. Perché non basta alzare lo sguardo. Chi lo ha fatto, la prima volta migliaia di anni fa, guardò solo un velo muto.
Spettacolo di inimitabile bellezza o di inaudito terrore, certo. Ma la specie umana, in principio, non possedeva i requisiti necessari per adattarsi alla volta celeste. I primi homo sapiens orientarono lo sguardo alla loro altezza o in basso per annusare il pericolo o essere il pericolo.
Occorrerà molto tempo perché l’occhio nudo cominci a calcolare i cicli e ad orientarsi con lo sguardo rivolto al sole e alle stelle. Bisognerà attendere le grandi rivoluzioni, quella copernicana in particolare, perché il Cielo diventi esplorabile. E la parola, come lo sguardo, deflagrò quando il primo cannocchiale fu puntato verso l’alto. Ricavo il senso di questa storia, lunga 25 secoli, da L’incanto di Urania (Carocci) dell’astronomo Massimo Capaccioli. Mi colpisce questa frase: «Viviamo sul fondo di un vasto e turbolento oceano d’aria, alla base di un’atmosfera che avrebbe potuto essere opaca alla radiazione elettromagnetica, come succede su Venere, il pianeta azzurro, e su Titano il gemello giovane della Terra che orbita attorno a Saturno. Entrambi i corpi sono avviluppati da mantelli di nubi perenni tanto spesse da nascondere persino il Sole ai potenziali abitanti di questi tenebrosi mondi. Altro che cielo stellato! Ai terrestri è andata molto meglio».
Ai terrestri quel cielo ha dato poesia e conoscenza.
«È stato e continua ad essere una risorsa inestinguibile. E questo fin dall’antichità, quando guardare il cielo significava misurarlo. Sia che si fossetra le piramidi di Giza, innalzate ai confini del Sahara, o nel sito neolitico di Stonehenge nel sud dell’Inghilterra. La pietra eretta, oltre a essere simbolo di eternità, era orientata in modo da indicare eventi celesti».
Quei corpi celesti erano visibili a occhio nudo?
«Non c’era altro modo e sono gli stessi corpi che allora come oggi osserviamo e amiamo e che diradavano le tenebre. Queste ultime venivano percepite come entità reali e contrapposte alla luce. Fin dalla Genesiapprendiamo che Dio separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte».
Siamo pur sempre nell’ambito della mitologia e della religione. Bisognerà attendere il sedicesimo secolo perché il cielo diventi un questione per astronomi.
«In realtà già l’astronomia babilonese cominciò a frequentare il cielo come se fosse una mappa che descriveva e raccontava il ciclo stesso della vita».
In che modo?
«Per esempio scandendo e misurando il tempo. Si può paragonare il Sole a un meraviglioso orologio celeste che ha per ciclo l’anno solare. Il cielo con i suoi astri regolava ciclicamente la vita sulla terra. Il firmamento la influenzava senza esserne a sua volta influenzato. Il passo verso il motore divino, un Dio nascosto e provvidenziale, era breve».
Religione e scienza si intersecano agli inizi.
«Sovente l’astronomo è astrologo e sacerdote. Ma già con il solo uso dell’occhio nudo si cominciano a fare scoperte interessanti e a costruire modelli suggestivi. Eudosso di Cnido, allievo di Platone, fu il primo a ideare un modello geometrico per i moti celesti.
Convinto che la Terra fosse immobile la collocò alcentro dell’universo. Il suo sistema di sfere rotanti servì a spiegare il moto dei pianeti e l’inclinazione della loro orbita rispetto a quella terrestre. Aristotele e poi Tolomeo si muoveranno su quella scia.
Naturalmente fu conservato il pregiudizio che la Terra fosse il centro di tutto e occorreranno secoli perché una tale presunzione sia demolita».
Bisognerà attendere la crisi del pensiero aristotelico per leggere in modo nuovo il cielo.
«Le prime spallate arrivarono nel XIV secolo, quando qualche temerario prese posizione contro l’immobilità della Terra. Occhiuto era il controllo della Chiesa che, attraverso il Sant’Uffizio, comminava pene pesantissime a coloro che avversavano o contraddicevano il sistema tolemaico».
A farne le spese è lo stesso Galileo che pur non essendo il primo ad usare il cannocchiale ne sviluppa e ne comprende le enormi potenzialità. Con lui cambia la conoscenza del cielo.
«Galileo perfezionò il modello olandese del cannocchiale. E lo stesso Keplero, sulla base dei suoi scritti, avanzò nuove soluzioni ottiche. Altri vennero dopo a rafforzare l’esplorazione telescopica fino ad arrivare ai potentissimi telescopi attuali».
Prima di chiederle qualcosa sui suoi studi incuriosisce che ancora nel Seicento l’astronomo non disdegni l’astrologia. Come fanno a convivere mondi così diversi?
«L’astronomo si trova nella condizione di sfruttare il cielo anche in chiave zodiacale. Sono le corti imperiali europee a richiedere queste prestazioni. Galileo fa oroscopi, come pure li fa Keplero. Anzi Keplero è considerato talmente bravo da guadagnarsi la fiducia del superstizioso imperatore Rodolfo. Lo stesso Tycho Brahe era in grado di confezionare oroscopi di grande qualità. Pur nelle diverse storie, questi uomini seppero con differenti motivazioni distruggere l’antica cosmologia fondandone una nuova. L’astrologia diede loro una certa fama e li protesse, in parte almeno, dagli effetti eversivi che la scienza astronomica stava producendo».
Come è finito a occuparsi di astronomia?
«Fin da bambino mi piaceva studiare il cielo, come pure mi attraeva la storia. Sono sempre stato uno studente modello. Quando sono approdato all’università di Padova pensavo di iscrivermi a lettere, poi la voglia di capire certe cose che accadevano nel mondo della fisica mi ha spinto verso la scienza.
L’astronomia fu la scelta del terzo anno. Devo dire che l’impatto non fu dei migliori».
Nel senso?
«Trovavo le lezioni che il professor Leonida Rosino teneva sull’astronomia sferica particolarmente noiose. Quando passò all’astrofisica mi sentii invaso da una grande eccitazione».
Che differenza c’è tra i due campi?
«Si passa dalla descrizione della sfera celeste e dei suoi movimenti ai corpi celesti osservati dal punto di vista dell’equilibrio e dell’evoluzione. Comunque, fui tra gli allievi prediletti di Rosino e mi laureai il 16 luglio del 1969, la data del lancio dell’Apollo 11. Mi sembrò un buon segno. Quel giorno, purtroppo, mia madre si ruppe un piede, compromettendo così la festa che mi avevano organizzato. Rosino mi disse: festeggerai in un altro momento. Ora prenditi tre giorni, perché lunedì comincerai a lavorare all’osservatorio di Asiago».
Era diventato un astronomo a tutti gli effetti.
«Un astrofisico per l’esattezza. Per tutta la vita mi sono occupato di galassie».
Chi ha reso in qualche modo familiare l’astronomia è stata Margherita Hack. L’ha conosciuta?
«È stata una buona amica. Quando morì mia sorella le telefonai dicendole se poteva prendersi i suoi due gatti. In quel periodo ero all’estero. Era una donna generosa che ha svolto un ruolo fondamentale nel diffondere la scienza. Nel periodo in cui ero direttore dell’osservatorio di Capodimonte la invitai a tenere varie conferenze. Aveva un modo semplice ed efficace di parlare alla gente. E nella vita privata era come appariva nella vita pubblica».
A parte Rosino chi sono stati gli altri suoi maestri?
«Ho lavorato molto in America, a Austin in particolare. E una persona che considero importante nella mia formazione è stata Gérard-Henri de Vaucouleurs. Un francese che dopo un lungo soggiorno in Australia era approdato negli Stati Uniti. Gérard aveva il dono di trarre l’essenziale dei fenomeni dal complesso mondo dei dati sperimentali. Era straordinariamente accurato e possedeva una cultura astronomica poderosa».
Essere tenaci nel lavoro scientifico è importante?
«Certo, Gérard era come dicevo pignolo. A volte la pignoleria può diventare un’ossessione. Sapendo delle mie letture storiche mi regalò due scatoloni di libri su Napoleone. Mi disse che aveva passato tutta la notte a dedicarmeli. Non avrei fatto lo stesso».
Perché Napoleone?
«Era francese, basso di statura e convinto di dover conquistare il mondo. Una volta litigammo. Eroappena giunto all’aeroporto di Austin. Fresco di ricerche con le quali cercavo di dirimere una feroce polemica tra de Vaucouleurs e Allan Sandage.
Quest’ultimo gli aveva aperto l’archivio di Edwin P.
Hubble a Pasadena».
Hubble chi era?
«Uno scienziato che aveva dimostrato la natura extragalattica di certe nebulose. Un personaggio leggendario, le cui qualità atletiche gli avevano permesso di accedere a una importante borsa di studio. Per onorare una promessa al padre morente si laureò in legge e solo in seguito si iscrisse a Fisica. La sua prima grande scoperta, negli anni Venti, fu una stella della famiglia delle Cefeidi che individuò nella Galassia di Andromeda. La scoperta era importante perché consentiva un balzo nel problema delle nebulose».
Un cambio di paradigma?
«In un certo senso. La verità è che la scoperta di Hubble distrusse una certa concezione dell’universo, degradando la Via Lattea da unicum nel cosmo a semplice esemplare dell’immensa famiglia delle galassie. Dal suo archivio emersero contributi fondamentali. Era una miniera di immagini e di spettri ancora inediti, alla quale su invito di Sandage ebbe accesso de Vaucouleurs. All’inizio la collaborazione fu eccellente. Ma poi le posizioni cominciarono a divergere. Negli anni Ottanta la frattura fu definitiva.
La mia ricerca tentava di ricomporla. E quando, come dicevo, scesi all’aeroporto di Austin ad attendermi c’era de Vaucouleurs».
Cosa accadde?
«Qualcosa che non avevo previsto. Ero entusiasta di quello che avevo realizzato. Estrassi i fogli dalla borsa e li passai a Gérard. Ricordo questo ometto, con cappello texano e guantini francesi. Sembrava l’assurda sintesi tra un mandriano e un gagà. Il mio lavoro sulla costante di Hubble aveva trovato una soluzione a metà strada tra Sandage e de Vaucouleurs.
Gérard cominciò a leggere. Scorse rapidamente i fogli.
Poi alzò gli occhi da sotto il cappellone e con un gesto di stizza li gettò a terra. Mi aspettavo un abbraccio.
Restai impietrito. Si allontanò di qualche metro. Poi lo vidi fermarsi. Girò nuovamente su se stesso. E colsi la desolazione del suo volto. Era di nuovo vicino. Mi disse “scusa ma questo articolo avrei dovuto scriverlo io!”».
Che cos’è la costante di Hubble?
«In generale potremmo dire che mentre si sta cercando, che so, una distanza naturale, invece di trovarla si verifica un fenomeno inatteso. Qualcosa del genere accadde quando si scoprì che l’universo era evolutivo e non statico. E la costante di Hubble e Lamaître indica la velocità alla quale il nostro universo si espande».
Ma l’universo che bisogno ha di espandersi?
«Se non lo facesse, non riuscirebbe ad opporsi alproprio peso e non sarebbe neppure nato. In effetti oggi abbiamo scoperto anche l’esistenza di una vera e propria forza repulsiva che da alcuni miliardi d’anni s’è aggiunta all’espansione nel contrasto al collasso.
Ha già un nome, “energia oscura”, ma sulla sua natura per ora si fanno solo delle ipotesi».
La fisica, più di ogni altro campo della scienza, ha cercato una legge che unificasse tutto. Penso alla teoria delle stringhe. A che punto siamo con questo ideale?
«Per un po’ di tempo la teoria delle stringhe è sembrata soddisfare o promettere un approdo unificante. Ma i tentativi sono falliti, nonostante gli esperti di stringhe siano tra gli fisici più brillanti.
L’umanità ha sempre aspirato all’Uno. Ma temo che il solo monoteismo esistente sia quello religioso».
Lei crede in Dio?
«L’astronomia non offre risposte alle domande del tipo chi siamo, da dove veniamo, ecc. Laplace, che Napoleone omaggiò, sosteneva che Dio è un’ipotesi di cui la scienza non ha bisogno. Scienza e religione non si intersecano. Personalmente non riesco ad accettare nessuna forma di religiosità. Ma al tempo stesso qualche tormento lo provo. Più che un ateo tranquillo sono un ateo agitato».