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 2023  gennaio 14 Sabato calendario

Intervista a Olivia Colman

Dopo il premio Oscar per “La favorita” e il molo della regina Elisabetta II nella serie “The Crown”, l’attrice torna con “Empire of light”, dove interpreta la madre del regista Sam Mendes, direttrice di una sala alle prese con la depressione
livia Colman, la regina popolare di
The Crown e
quella da Oscar di
La favorita, Sam
Mendesha affidato il compitodi sovrana dei suoi ricordi d’infanzia e imperatrice del cinema. È lei la direttrice della sala di una cittadina costiera inglese negli Ottanta,Empire of light(l’impero della luce), di cui seguiamo crisi e smarrimenti, confusione e ritomi, nel ciclo che accompagna la malattia mentale. Un personaggio che è ispirato alla madre di Mendes e nel quale è talmente brava da attirare accuse di critici di monopolizzare il film. In realtà accanto a lei ci sono personaggi e attori di gran livello.
L’emergente Michael Ward, nuovo impiegato di origine africana, appassionato di musica stile 2 Tone, l’etichetta dello ska inglese di fine 70, che unisce bianchi e neri, che intreccia con la donna un rapporto di amicizia, complicità, sesso, Toby James è un proiezionista che ricorda il Philippe Noiret diNuovo cinema paradiso,l’insolitamente sgradevole Colin Firth il meschino proprietario della sala che impone alla donna una relazione sessuale. L’intervista con Olivia Colman è in collegamento zoom da Londra. (Il film esce il 23 febbraio con Disney).
Mendes ha scritto il ruolo durante la pandemia, mentre la guardava in tv “The Crown”.
«Ho trovato la cosa surreale, come lo è stato improvvisamente trovarmelo via zoom in cucina che mi faceva la proposta. Non ci conoscevamo, ma quando studiavo recitazione ero spesso al Donmare Warehouse,
teatro da lui fondato, sapevo tutto su di lui».
Qual è il cuore del film, che affronta molti temi?
«L’incontro tra due persone perdute che si vedono l’uno con l’altro, senza pensare al colore della pelle, all’età.
Per il mio personaggio, è la relazione più amorevole che lei abbia mai avuto. Quel ragazzo è l’unico che va a trovarla quando lei è nei suoi momenti peggiori. Entrambi devono lottare con i propri demoni e i pregiudizi esterni, anche per questo si ritrovano».
Il suo personaggio è ispirato alla madre di Mendes, che ha segnato la sua infanzia: il racconto delle crisi, lo scrutare i sintomi, i dettagli che le precedono, come una pettinatura diversa...
«Ho sentito grande responsabilità nell’interpretare la mamma di Sam. Ma lui è gentile, ha grande intelligenza emotiva, ha saputo creare un ambiente favorevole, ti fa sentire che non puoi fare niente di sbagliato. Lui è stata la mia principale fonte di ricerca, mi mostrava sul set i gesti, i dettagli, i segnali del cambio di un ciclo di umore, cose che aveva imparato nell’infanzia cercando discandagliare lo stato d’animo della madre. Per me è stato un onore, ma d’altra parte non volevo deludere lui o chiunque abbia vissuto, di persona o tramite gli affetti, un problema di salute mentale. Il film è ambientato negli Ottanta, quando la malattia mentale era un tabù e non se ne parlava. Oggi abbiamo fatto un po’ di strada in questo senso, ma non se ne palla ancora abbastanza.
Quando esci dall’ospedale dopo aver affrontato una cura per il cancro, la gente ti chiede “come stai?”, ma se esci dall’ospedale dopo essere stato in un istituto psichiatrico, le persone evitano decisamente l’argomento. E invece bisogna chiedere “come stai”, che significa “va bene, puoi parlarne”.
Non dovrebbe esserci vergogna, non è colpa di nessuno. Spero davvero che questo film faccia anche partire qualche seria discussione la riguardo, nelpubblico e nell’opinione pubblica».
C’è sintonia tra lei è Michael Ward, personaggio che diventa suo amico, amante, confidente.
«Non è stato facile all’inizio, è una cosa venuta con il tempo. Sam aveva già intuito, noi lo abbiamo scoperto dopo, che la nostra sintonia era inevitabile: abbiamo molto in comune, ridiamo per le stesse cose, prendiamo il lavoro molto sul serio ma non altrettanto noi stessi. E per me è stato un bonus avere un “affair” con un uomo che ha la metà dei miei anni...».
Ci sono scene molto intense, come quando il giovane va a trovare la donna nella casa mentre è in piena crisi, i servizi sociali e la polizia alla porta. Una tale intensità è difficile da lasciare andare, anche a scena finita?
«Sì, è qualcosa che ti resta dentro per un po’. AU’inizio non è facile raggiungerla, questa intensità. Ma ilset era accogliente, Michael era accanto a me in tutti i sensi e tutti sul set cercavano di non fissarmi, di lasciarmi tranquilla, mentre mi preparavo. Sono state scene intense, ma è anche un processo catartico. E quella sofferenza la chiudi fuori da casa, davanti a una tazza di té».
Il film è un viaggio nei tumultuosi anni Ottanta, la Thatcher, la musica, il cinema. Che ricordi ha?
«Nel 1981 avevo sette anni, non ricordo molto, le memorie riguardo agli Ottanta arrivano anni dopo. Mi ricordo la macchina dei miei nonni, di quelle rumorose e puzzolenti, e un universo di beige e marroni. Ma, all’epoca ero molto impegnata ad andare in bici e sporcarmi di fango».
Ricorda il primo film che ha visto?
«Sì, ma l’incontro con l’arte del cinema non è stato molto felice. Mia nonna, quando ero uno scricciolo, mi ha portato a vedere Bambi e la morte della mamma di Bambi fu una scena che mi traumatizzò. Pensavo: non avrebbero dovuto farlo, non in quel mondo. E non avrebbero dovuto portarmi in quella sala. Ero molto arrabbiato con mia nonna e lo sono stata anche con il cinema, per tanto tempo. Dovremmo fare un club dei traumatizzati daBambi. Ma, anche se è stato sconvolgente, è stata una esperienza che mi è rimasta dentro a lungo e in realtà penso che la mia fascinazione per il grande schermo sia nata in quel momento. E poi i miei gusti sono cambiati con il tempo, ho scoperto i film d’autore durante l’adolescenza.
E ne sono stata catturata».
C’è un “impero della luce”, una sala, un evento che hanno un significato speciale per lei?
«Sono cresciuta a Norwich. a norddel Norfolk. Andavamo a Norwich per vedere i film. C’erano l’Odeon, e il Prince ofWales Cinema, e c’era anche l’Art Cinema. Da adolescente ho scoperto l’Art Cinema ed è stato una sorta di punto di svolta. Ho incontrato film d’autore, ho scoperto un genere di regia completamente nuovo, che non immaginavo esistesse. Quindi, quello è stato un grande evento: viaggiare in città per un’ora per vedere un film».
È un film pieno di rimandi all’oggi.
«Sì, il personaggio di Michael è quello che sperimenta il razzismo, in un modo orribile che è giusto ricordare. Ed è straordinario il fatto che mentre guardi quel periodo, gli Ottanta, i grandi sconvolgimenti politici e razziali, pensi che nel frattempo abbiamo fatto molta strada. Ma poi ti rendi conto che no, non è successo davvero. Mentre Sam scriveva il film c’è stato il movimentoBlackLivesMatter, la violenza nelle strade, il razzismo. E allora spero che, anche guardando il film, ci venga in mente che c’è ancora molto da fare, e che potremmo dovremmo – fare di più».