Robinson, 14 gennaio 2023
Tutto Capa
Chissà, ci domandiamo all’ingresso di Robert Capa. L’Opera 1932-1954, se, e come, un fotoreporter come lui, da molti considerano il fotoreporter per eccellenza chissà, insomma, se la sua storia possa ancora interessare, appassionare, magari ispirare chi, oggi, si diletta di fotogiornalismo, nonostante i tempi siano quel che sono, ovvero profondamente cambiati. E per tempi, qui, intendiamo quelli puramente fotografici, che del mezzo rappresentano croce e delizia. Da un ventennio a questa parte, ad arrivarci e a rimanere impressa nel nostro immaginario non è più soltanto la foto giusta, ma la più veloce. Ci spieghiamo meglio: per sapere quello che accade a Kabul abbiamo i selfie dei talebani e, quei selfie, non sono meno documentaristici delle foto di una qualsiasi agenzia di stampa. Se quello di paragonare a tutti i costi il lavoro di Capa alla nostra contemporaneità svelta e fluida potrebbe apparire come una mera provocazione, il preambolo, in realtà, serve a introdurre l’enorme retrospettiva che la città di Rovigo, nella fattispecie l’intero quarto piano di Palazzo Roverella, ospita fino al 29 gennaio e che non è, come potrebbe sembrare, la semplice celebrazione di un genio.
È la storia che ha inseguito Capa o è Capa che ha inseguito la storia? A essere del tutto onesti questa domanda non se l’è posta chi sta scrivendo, ma un sedicenne che, la mostra, l’ha visitata lo stesso giorno col resto della sua classe. Le opere, stampate in vario formato, sono esposte seguendo un ordine cronologico, e la guida – a proposito, ci siamo accodati alla scolaresca – ci racconta che Capa, dopo essere stato arrestato per attività antifasciste nel 1931 fu, l’anno dopo, artefice del primo colpaccio della sua carriera: fotografò Lev Trotskij a Copenaghen, durante la prima apparizione pubblica dopo l’espulsione dall’Unione Sovietica. Trotskij, cheaveva proibito che lo si fotografasse, fu immortalato da Capa soltanto grazie a una Leica nascosta sotto la giacca e quelle foto gli consentirono, giovanissimo, di entrare nell’olimpo dei fotoreporter dall’ingresso principale. Ma come faceva, domanda adesso un’altra adolescente, Capa, a trovarsi sempre al posto giusto nel momento giusto? E qui, la guida, deve ahilei anticipare la tragica fine del fotografo ungherese: quarantenne, posò il piede su una mina antiuomo mentre documentava la prima Guerra d’Indocina. Era disposto a tutto, insomma, per una fotografia. Fu proprio lui, d’altronde, a dire che se un’immagine non era buona, voleva dire che non si era andati abbastanza vicini al soggetto.
Curata da Gabriel Bauret, la retrospettiva consta di ben 388 scatti che ripercorrono le tappe fondamentali di un uomo che, della sua epoca, ha fotografato tutto ciò che doveva essere fotografato: dallo sbarco in Normandia alla nascita dello Stato di Israele, dalla guerra d’Indocina alla liberazione di Parigi, dalla resa dei tedeschi alle migrazioni dei popoli, passando per la travagliata situazione mondiale degli anni Trenta alla guerra civile spagnola. Fu, per farla breve, il primo esempio di fotogiornalismo così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Nel ’ 47, Capa, insieme a Cartier- Bresson e Seymour, fondò quella che tutt’oggi è considerata una delle più prestigiose agenzie fotografiche del mondo, la Magnum. E oggi, vedendo e rivedendo questa mostra, e capendo che sì, il fotogiornalismo è mutato e che ci troviamo in mezzo a una (bellissima) fusione di linguaggio, potrebbe addirittura apparire dissacrante scrivere che l’esibizione si osserva come si osserverebbe una serie di piccoli e preziosi reperti archeologici. E che, a tal proposito, il finale della mostra rappresenta la ciliegina sulla torta. Esposte, ci sono alcune riviste sulle quali le fotografie di Capa trovavano ospitalità. Vederle contestualizzate, impaginate e raccontate secondo i canoni dell’epoca è un’esperienza. Infine, forse ancora più preziosa, è la voce del fotografo che sbuca fuori da una radiolina d’epoca. Si tratta di uno stralcio di un’intervista in cui Capa spiegò il motivo per il quale decise di cambiare il suo vero nome, ovvero Endre Ern? Friendmann. «Bob Capa mi sembrava un bel nome ed è un po’ imbarazzante per me parlare di questo – premette il fotografo –, ma Robert suonava molto americano e ho pensato che Capa fosse facile da pronunciare. Mi sono inventato che Bob Capa era un famoso fotografo americano arrivato in Europa, che non voleva lavorare coi francesi perché non pagavano abbastanza. Era un periodo in cui in Francia succedevano molte cose, quindi mi bastava girare con la mia piccola Leica, scattare qualche foto, mettere sopra il nome: “Bob Capa” e venderle a un prezzo doppio». Fine della storia. O forse è solo l’inizio, dipende dai punti di vista.