Robinson, 14 gennaio 2023
Gli amici straordinari di Alvar Gonzales-Palacios
Un altro tempo, un altro mondo, neppure tanto lontani eppure quasi del tutto dimenticati. Dove sono infatti le vecchie principesse, sino a pochi anni fa chiuse nei loro palazzi romani, tra arredi secenteschi e mercanti in adorazione, ancora servite da valletti in polpe? O quei venerati giganti della storia dell’arte, meta di pellegrinaggi devoti nelle loro ville fiorentine, che poi si rivelavano umani nei feroci pettegolezzi, negli sgarbi imperdonabili, nei tradimenti più efferati? Ce li racconta un grandioso testimone di vite straordinarie, opulente, creative, colte, bizzarre, legate tra loro dalla certezza dei propri privilegi e in parte anche dal nastro lieve dell’omosessualità di rango, complice ma mai esibita nel susseguirsi degli inviti ai ricchissimi tè o ai grandi ricevimenti. Alvar Gonzales-Palacios, il narratore, è un nume del sempre più esiguo mondo che ha il culto della bellezza, dell’arte e della sua meravigliosa storia, un’aristocrazia di eterna curiosità e competenza che sfugge al sempre più vasto mondo del nulla che sta divorando ogni sapienza e ogni suo piacere. 86 anni, cubano di grande famiglia, espatriato dopo la rivoluzione castrista, vive ormai in Italia da decenni: scrive in un elegante e ricco italiano, anche se «abbandonare Cuba è stato più facile dello smettere di scrivere spagnolo». Col titoloForse è tutta questione di luce, in 490 pagine e fotografie, raccoglie una ottantina di brevi ritratti di personaggi quasi tutti, o tutti, defunti, che hanno attraversato la sua vita: critici e storici dell’arte, collezionisti, aristocratici, miliardari, scrittori, editori e molte signore, mogli, madri, benefattrici, studiose, etere, palazzinare e naturalmente principesse e nobildonne varie.
Una sorridente collezione dice lui, di possibili necrologi o sedute spiritiche, in cui conoscenza e pettegolezzo, anche in due sole paginette, raccontano l’umanità di personaggi del tutto fuori tempo per le scelte di vita quasi rinascimentali, compresa la passione per lo studio e il possesso del bello. Come Harold Acton (1904 – 1994), storico (celebre un suo saggio sui Borboni) e collezionista soprattutto di primitivi, che nella sua importante villa La Pietra porta Alvar «ad ammirare i capolavori della dimora principesca e a fare una breve passeggiata in giardino dove trionfavano statue settecentesche, fontane barocche…».
I Signori delle colline attorno a Firenze erano Bernard Berenson (1865–1959) e Roberto Longhi 1890–1970) venerati studiosi d’arte, rivali inconciliabili e con tutta la loro grandiosa sapienza, capaci di scontri imbarazzanti e meschini. Nella villa di Berenson, i Tatti a Settignano, «si andava come si va a corte… ad una prima teatrale… amico di re e grandi finanzieri, fu re anche egli stesso ed ottimo gestore dei propri mezzi economici». Cioè abile commerciante di antichità non sempre integerrimo. Di Longhi Alvar era stato allievo, talvolta incoraggiato, talvolta umiliato, come quando il Maestro gli faceva consegnare a mano inviti ad altri allievi per cene cui lui non era invitato. Come tanti geni, anche questi tre, Acton, Longhi, Berenson, disponevano di signore di massima utilità, diventate le loro incorruttibili guardiane e le severe padrone. Acton era soggetto alla vecchia madre, americana ricchissima, a capo di 14 domestici. Mary, la moglie di Berenson, era una nota studiosa, ardente femminista e impeccabile segretaria. Nei diari si lamenta di quanto sia arduo esportare clandestinamente i dipinti «malgrado la scarsa onestà degli addetti ai controlli». E di come sia riuscita a farlo con una Madonna duecentesca nel doppio fondo di un immenso baule pieno di bambole. La moglie di Longhi invece aveva anche una importante vita sua: con lo pseudonimo di Anna Banti (1895–1985), è stata una raffinata e colta autrice di libri tra cui importante Artemisia, protagonista la grande Gentileschi. Signora avvenente, ebbe col marito un legame che Alvar definisce «devastante… un amore ossessivo che non nascondeva una lotta continua, fra bizzarri rancori e dolcezze inconfessabili». Gonzales Palacios ha scritto una trentina di libri dedicati soprattutto agli arredi antichi, e il mio primo approccio alla sua prosa impeccabile è stato un articolo sul24 Ore, una intera pagina dedicata a un secretaire settecentesco, contenitore di cere stupefacenti, raccontato come un romanzo, vite degli esecutori e del loro tempo, dei committenti e dei vari proprietari, sino ad arrivare nel 2016 al Tefaf di Maastricht, dove, se ricordo, fu venduto per venti milioni di euro (troppo poco, commentò il suo laudatore). Immagino il piacere luminoso di questo studioso che raccoglie con pazienza la lunga storia di uno stipo appartenuto a un malgravio, di una coppia di candelieri d’argento che illuminavano le cene di un vescovo, di reperti, straordinari testimoni di vite e fatti passati alla Storia. Con Forse è tutta questione di lucel’autore ripercorre la sua vita attraverso la ricchezza degli incontri, un mondo di privilegio, cultura e bellezza d’epoca, svanito oggi nell’intrico di più immensi privilegi, di una cultura del futuro, di una idea forse horror di bellezza.
Ospite nella dimora inglese del miliardario collezionista Jean Paul Getty (1892 – 1966), noto per la sua avarizia, dove ammira il doppio secretaire delle figlie di Luigi XV, gli viene assegnata una cameretta spoglia senza riscaldamento e un segretario lo informa, «non c’è telefono, ma accanto all’ingresso c’è una cabina telefonica e il maggiordomo le darà i gettoni». Per una grande mostra sui Borboni lavora a Napoli con Anthony Blunt (1907–1983), massimo storico dell’arte italiana e curatore delle collezioni della regina Elisabetta, quando la crudelissima premier Thatcher lo accusa di essere una spia dell’Unione Sovietica, il che è vero. Maestro venerato, non si difende e diventa un reietto sino alla morte. «Erano ormai tramontati i tempi in cui in Inghilterra le diverse inclinazioni sessuali venivano considerate illegali e comunque Blunt non era uomo da farsi intimidire da queste circostanze. Non fece una bandiera delle sue inclinazioni ma neanche le nascose».
Dell’amico Alberto Arbasino ( 1930– 2020) ricorda la bellezza, la meravigliosa intelligenza e il modo unico di raccontare l’arte oltre ognisapienza di critico. E per esempio di una mostra londinese del 1979, The age of neoclassicism, Alvar, estasiato, ricorda le parole dell’amico: «Certe tavole sembrano già fasciste. Certe sedie e brande curuli paiono scappate da un Totò e Cleopatra. Certi servizietti etruschi per la cioccolata e il brodo sono proprio ridicoli». Ci sono persone che ammira come Marella Agnelli ( 1927– 2019) per la sapienza leggiadra con cui arredale case di famiglia, colleziona arte moderna e contemporanea, disegna tessuti; ci sono quelle cui deve molto come Mario Spagnol (1930–1999) che alla Feltrinelli «divenne fratello e fu lui a insegnarmi i trucchi del mestiere». Con un po’ d’ironia ricorda un altro formidabile datore di lavoro, l’editore Dino Fabbri (1923 – 2001) «che amava il lusso ad ogni costo e più di mezzo secolo fa ebbe l’idea geniale di offrirlo agli italiani per cento lire». Di quelle dispense d’arte dalle meravigliose fotografie se ne occupò Alvar; entrarono in milioni di case degli italiani che allora aspiravano, ingenui, alla cultura.
Mi rattrista pensare di quale piacere si priva chi twittando tutto il giorno alla vista di un libro è preso da convulsioni: Alvar con le sue storie risulta un compagno di massimo divertimento, di luce nella nebbia del presente: oso dirne una grossa, meglio della Ferragni seminuda!