la Repubblica, 14 gennaio 2023
La strada per Tripoli
Nelle sabbie mobili della Libia sono ricominciati i tentativi di disincagliare i piani di stabilizzazione.
Gli incontri del direttore della Cia William Burns con i potentati locali dimostrano che la questione è tornata al centro dell’agenda internazionale. È semplice intuire quale sia la priorità dell’amministrazione americana: strappare i mercenari della Wagner dalle basi della Cirenaica, togliendo così linfa vitale alla milizia russa che combatte nel Donbass e contrastando la crescente espansione dei guerrieri del Cremlino in Africa. Per raggiungere questo obiettivo bisogna mettere d’accordo tutti i signori della guerra libici, a partire dal generale Haftar, l’uomo che la stessa Cia ha ospitato per decenni negli Usa “coltivandolo” come alternativa a Gheddafi. La Casa Bianca deve far sentire il suo peso e questo può rappresentare una svolta.
L’invasione dell’Ucraina infatti ha cambiato gli equilibri nel Mediterraneo. Ma si sono modificati pure i rapporti tra le potenze regionali che in passato hanno regolato i loro conti sfidandosi in Libia. Egitto e Qatar non sono più nemici; Al Sisi ha diminuito le tensioni con Erdogan; Emirati arabi e Turchia si sono riconciliate: per la prima volta c’è una congiuntura favorevole per spingerle a sedersi a un tavolo e disarmare le loro pedine a Tripoli e Tobruk. Ecco perché, a poco più di dodici mesi dall’annullamento del voto, sta rinascendo la speranza di costruire un percorso per eleggere un parlamento e generare istituzioni condivise in grado di pacificare il Paese.
Non sarà semplice. Nell’ultimo anno le divisioni politiche e tribali sono aumentate, così come il numero di milizie bellicose che non riconoscono alcuna autorità. Il premier di Tripoli Abdul Hamid Dabaida, espressione del vecchio governo di intesa nazionale insediato dall’Onu, è riuscito a frenare l’ascesa del rivale Fathi Bashaga, insediato dal parlamento di Tobruk dopo la cancellazione delle elezioni. La scorsa estate le truppe di Bashaga hanno tentato di penetrare nella capitale ma sono state respinte e da quel momento l’astro dell’ex ministro dell’Interno ha iniziato a perdere luce, a vantaggio dell’antagonista che sembra avere riconquistato il pieno appoggio turco.
In Tripolitania l’anziano generale Haftar resta alla guida del suo esercito, che esibisce in parate marziali, e continua a venire sostenuto dall’Egitto. Ogni tanto minaccia di marciare su Tripoli, senza riuscire a cancellare la memoria della disfatta subita tre anni fa.
Negli ultimi mesi, su suggerimento del Cairo, ha abbassato i toni e si dichiara disponibile al compromesso: la sua preoccupazione principale è garantire un futuro ai figli.
Ci sono altri protagonisti. Aqila Saleh, speaker della Camera dei rappresentanti, e Khaled Mishri, presidente dell’Alto consiglio di Stato con un passato nei Fratelli Musulmani. La scorsa settimana i due si sono visti in Egitto, concordando “colloqui per definire un nuovo assetto costituzionale” del Paese. Infine è molto attivo il capo del Consiglio presidenziale, Mohammed Al-Menfi: pochi giorni fa ha avuto un incontro segreto con Haftar.
Insomma, la partita si è riaperta. Resta il grande snodo: definire il cammino verso le elezioni e soprattutto le autorità che dovranno gestirle. Come è accaduto in vista del voto fallito, molti ritengono che sia necessario architettare nuove istituzioni. Un’operazione che ricade sull’emissario Onu, il senegalese Abdoulaye Bathily, e sulla diplomazia occidentale: a riprova dell’interesse americano, a Washington si dovrebbe tenere presto un vertice tra i rappresentanti di Italia, Francia, Germania e Regno Unito. L’inviato speciale statunitense, Richard Norland, ha ipotizzato di costruire una soluzione che fa perno sul controllo dell’entrate petrolifere – la risorsa che viene distribuita a tutte le fazioni e fa sopravvivere il Paese – affidandola a un organismo che potrebbe diventare il garante tra i premier rivali e permettere l’organizzazione delle consultazioni.
La strada è ancora tutta da inventare e le incognite tantissime. L’onda lunga del conflitto ucraino però sembra renderla possibile. E determina in qualche maniera un’investitura della Casa Bianca su un ruolo forte di Ankara, indispensabile per contenere le ambizioni di Putin sul Mediterraneo Orientale. Con questi paletti, anche le mosse dell’Italia diventano molto complesse. Durante i due governi Conte la nostra influenza in Libia si è ridotta sensibilmente, permettendo lo sbarco di turchi e russi. Mario Draghi non è riuscito a incidere sulla fase turbolenta nata dal fallimento delle elezioni e ha preso atto della situazione: qualsiasi iniziativa deve essere concordata con Erdogan. Una linea che pare confermata dal viaggio di Antonio Tajani, che si è offerto di mediare tra Egitto e Turchia.
L’esecutivo Meloni non può perdere altro tempo, perché la Libia è strategica per il nostro interesse nazionale, dalle risorse energetiche all’immigrazione. Roma può contare sulle relazioni storiche, sui rapporti dell’Eni e su quelli intessuti dall’intelligence, che ha mantenuto il dialogo con tutti i soggetti attivi sul territorio, in Cirenaica come in Tripolitania. Un patrimonio prezioso che però ha bisogno di scelte politiche chiare e soprattutto di recuperare la leadership europea nella gestione del dossier libico: l’unica condizione che può renderci di nuovo protagonisti.