Tuttolibri, 14 gennaio 2023
Una lunga intervista ad Amanda Lear
Si incontrarono per la prima volta nel 1965 un club parigino. Lei, Amanda Lear aveva 26 anni, era una ragazza bellissima, molto swinging London. Minigonne, amori rockettari, ma anche la passione per il disegno e l’arte. Lui, Salvador Dalí era il genio del surrealismo, 61 anni, troneggiava a capo tavola con la sua corte di personaggi estrosi e adoranti. Ne nacque un amore fatto di arte, stravaganze, viaggi, feste, che durò 17 anni. E che la cantante, modella, attrice, pittrice a sua volta, ha raccontato in La mia vita con Dalí. Il libro scritto nell’84 (e tradotto da Costa & Nolan nell’87), arricchito di nuovi capitoli, viene riproposto dal Saggiatore, mentre in America è appena uscito il film Daliland, con la regia di Mary Harron. Dalí è interpretato da Ben Kingsley. Lei, Amanda Lear, da Andrea Peji?, modella transessuale («non mi assomiglia per niente ma è molto bella; il film invece, pare, non è un granché. Il mio sarà molto meglio»). Il libro racconta l’asimmetrico amore che legò Amanda a Salvador. I tic, le ossessioni, la quotidianità nelle ville sontuose, l’ammirazione per il caudillo Franco, le feste, la vecchiaia del maestro che ormai era diventato un monumento di se stesso e sprecava l’antico talento in una vorticosa produzione di opere per fare cassa. Emblematico è il racconto di dodici acquerelli dipinti su commissione in meno di un quarto d’ora spremendo i colori sulla carta e passando poi i fogli sotto il rubinetto della vasca da bagno, ottenendo macchie e sbavature, che sembravano geniali, ma erano prodotti solo della fretta e del caso. Ma al di là dell’artista, neppure troppo simpatico nel suo esasperato egotismo e nella sua ossessione di essere stravagante ad ogni costo, spicca il personaggio di Amanda Lear, personaggio iconico di fine millennio. Modella di perfezione androgina, cantante (dalla voce roca e ambigua), attrice, pittrice. Tante donne e infinito talento in un solo personaggio. E soprattutto il desiderio di vivere una vita di continua ricerca, tesa a conquistare più la felicità della norma, che l’euforia del successo. E così passando da New York alla Catalogna, da una visita al Prado a una cena con Pasolini, nasce un’autobiografia che si legge come un romanzo e fa un ironico falò di ogni vanità.
Perché Dalí l’ha affascinata così tanto?
«Perché era un genio. Avevo incontrato musicisti, attori, artisti. Ma mai nessuno come lui. Assetato di ogni conoscenza come Leonardo da Vinci. Comprava ogni mese Scientific American, per essere aggiornato sulle ultime scoperte scientifiche, dall’astronomia, alla genetica, all’elettronica. Il personaggio pubblico era odioso, non mi piaceva per niente, con ‘sti baffi tinti, faceva il pagliaccio, parlava a voce alta, voleva colpire, provocare. In privato invece c’era un’altra persona, squisita, educata, meravigliosa, disarmata, fragile. Un dr. Jekyll e mr. Hyde di cui mi sono innamorata».
Riusciva a tenere insieme le due anime?
«Era terrorizzato dalle cavallette, aveva paura di fallire, aveva fissazioni sia sessuali che mistiche o monarchiche. Aveva un sacco di angosce e difetti. Si costringeva a nascondere tutto dietro una gran boria, con una recita continua. Non gli era facile far coabitare le due anime. Mi ha insegnato a stare in pubblico. Ero una semplice modella che doveva mettersi in posa, muta, il più fotogenica possibile. Dalí è stato una scuola per capire come muoversi nel mondo dello spettacolo, dove tutto è apparenza, finzione, maschera».
Che cosa le ha insegnato?
«Aveva capito come si gestisce la fama. Lo guardavo come si comportava con la stampa, con il pubblico, con gli invitati delle feste famose, nei salotti aristocratici. Vivere al suo fianco era come fare l’apprendista nelle botteghe di pittura medievali. L’importante, come diceva anche Oscar Wilde, è far parlare di sé. Colpire, provocare, esibire».
Il migliore consiglio?
«Comportarsi come le vespe, che arrivano, pungono, volano via. E lasciano il dolore della puntura. Bisogna punzecchiare la gente in modo che si ricordino di te anche quando non ci sei più. Era molto furbo. Era catalano».
Qual era l’origine della sua forza?
«Uno straordinario senso dell’umorismo. La bellezza, la fama, il potere, sono effimeri. La capacità di ridimensionare qualsiasi cosa con il sorriso, visto che siamo così minuscoli in questo universo, resta per sempre. È il migliore strumento per affrontare la vita. Se la possiedi ti rende quasi invincibile».
Le piaceva la pittura di Dalí?
«Assolutamente no. A me piaceva Caravaggio, Picasso (che Dalí pativa), Magritte, De Chirico, Joachim Patinir, un meraviglioso fiammingo del XVI secolo, che scoprii al Prado e mi lasciò senza fiato per la minuzia dei particolari dei paesaggi e delle rocce».
Il vostro rapporto è durato tanto perché mancava il sesso?
«Assolutamente sì. La passione erotica è un potente strumento per unire le menti oltre ai corpi. Ma dura poco. Due anni? Tre anni? Magari anche meno. Dalí era impotente. Sublimava il desiderio sessuale nell’arte. La relazione con lui era esclusivamente cerebrale. Se fossi andata a letto con lui sarebbe finita dopo qualche settimana. Era circondato da modelle bellissime che andavano e venivano. Era assetato di bellezza. Io invece sono rimasta. E sono diventata la sua musa».
Beh, c’era anche un’altra musa, la moglie Gala…
«Gala era anche manager, infermiera, consigliera. E Dalí aveva bisogno di tutto questo. Non gli bastava una bella donna da guardare per trarne ispirazione estetica. Aveva bisogno di un aiuto concreto, che lo riportasse con i piedi per terra».
Gala era gelosa di lei?
«Sono arrivata nel momento in cui Gala non ne poteva più. Aveva 12 anni più di lui, era ormai una donna anziana. Stanca di quella vita frenetica di viaggi, feste, estranei, apparenza. Quando sono comparsa io ha tirato un sospiro di sollievo. “Che bello che mio marito si sia innamorato di lei!”, mi ha detto. Mi ha fatto vedere la mia stanza, mi ha dato le chiavi di casa ed è partita con l’autista per un lungo viaggio in Italia e Grecia. All’inizio probabilmente un po’ di gelosia c’è stata verso una ragazza più giovane, dal momento che Dalí esaltava la bellezza del mio corpo nudo davanti a lei. Poi siamo diventato amiche. Mi leggeva persino il futuro nei tarocchi. Un giorno mi prese da parte, “Sto per morire, giurami sulla Madonna nera di Kazan che lo sposerai e non lo lascerai solo"».
Ha giurato?
«Ovviamente no. Stavo iniziando la mia carriera da cantate. Lei perfida mi disse che avevo una voce pessima, avrei fatto meglio a lasciar perdere. Non l’ho ascoltata. E purtroppo non sono riuscita a stargli accanto nel momento della fine. Era solo, triste, in balia di avvoltoi. È un senso di colpa che mi porto ancora dentro, ma il mondo dello spettacolo chiamava: e io ho risposto, avevo bisogno di trovare la mia strada».
Quando lei ha cominciato ad aver successo, Dalí era geloso?
«Dalí era il sole, voleva essere il centro dell’attenzione. Come un re circondato dalla sua corte di ammiratori fedeli e adoranti. Non sopportava che un’altra persona gli togliesse luce. Quando ero con lui, stavo zitta. Facevo la musa e basta. Quando ho cominciato e vendere dischi e ad avere la foto sui giornali, si è preoccupato. Temeva che scappassi via. Un giorno un ragazzo mi chiese l’autografo davanti a un ristorante di Parigi, ci rimase malissimo. Un misto di stupore e spavento, perché ero riconosciuta per strada più di lui. Da quel momento ci siamo allontanati. Non potevo più essere accanto a lui dal mattino a sera e lì è cominciata la gelosia. Più che per le persone con cui andavo a letto, era geloso della vita che stavo conquistando».
Lei ha avuto una vita effervescente, ma c’è anche molta tristezza nel suo libro: cos’è che la rendeva infelice?
«Sono nata triste. Ho un temperamento solitario. Dalí diceva che assomigliavo alla Malinconia di Dürer. Fatico ad essere ottimista. Credo sia un retaggio di mia madre, che oltre ai tratti del viso, mi ha trasmesso il fatalismo degli orientali».
È religiosa?
«Tanto. Sono devotissima di santa Rita da Cascia, protettrice della cause perse. Papa Francesco mi ha mandato un rosario benedetto».
Prega?
«Certo. Prego ogni giorno, anzi ogni istante. Appena sveglia la mattina, ringrazio di essere viva, ringrazio per ciò che ho avuto. Non prego per chiedere, prego per gratitudine».
La gratitudine è un principio chiave del buddhismo…
«Il buddhismo mi ha interessato molto. Dice anche che la felicità è assenza di desiderio. Quando non desideri più, sei felice».
Lo pensa anche lei?
«Certo. Una prova concreta è la degenerazione del “desiderio” collettivo. Tutti desiderano essere famosi, belli, visibili. I 15 minuti di celebrità che teorizzava Warhol oggi sono più esaltati che mai dal web. E questa forsennata rincorsa rende la gente molto infelice. Provoca rabbia e frustrazione».
Lei di fama ne ha avuta parecchia: l’ha resa felice?
«Beh, la fama è gratificante. Però è anche assai fastidiosa. Il pubblico pretende che tu sia 24 ore al giorno disponibile, bella, felice, radiosa, truccata. Non puoi permetterti di essere normale, fare la spesa, piangere. Quando si è famosi bisogna nascondersi per trovare intimità. E io non ho mai voluto farlo».
Le ha pesato la dicotomia tra la sua vera anima e i ruoli che doveva recitare?
«All’inizio è un divertimento. Poi diventi prigioniera del personaggio che hai creato. È una cosa mostruosa, come Frankenstein che fabbrica la creatura. Il “tuo” personaggio acquista una vita autonoma da te. Deve continuare a vivere con le sue battute, le sue provocazioni, la sua euforia. Anche in questo Dalí docet, era completamente schiavo dei suoi baffi, dei suoi occhi sbarrati, della sua eccentricità. Alla fine diceva “Datemi una pistola, voglio ammazzare Dalí, lo odio"».
Nel personaggio Amanda Lear il sesso è stato fondamentale.
«Darling, il sesso si sa, fa vendere».
Nella sua vita vera, è stato altrettanto importante?
«Bah, come per tutti. Non ne sono stata ossessionata. L’ossessione per il sesso è solo italiana. Negli altri paesi si fa, ma non se ne parla così tanto. La cosa davvero importante è la salute. In questo momento della vita ho cambiato prospettiva. Me ne sono accorta l’anno scorso quando ho avuto un intervento al cuore».
Pensa alla morte?
«Tutti i giorni».
La spaventa?
«Assolutamente no. Non vedo l’ora. Deve arrivare per forza. Era Heidegger che parlava di essere-per-la morte per trovare un’esistenza più autentica. Se sei preparato, è un grande sollievo, finalmente la pace. L’inferno è adesso, non dopo. Lottare ogni giorno per sopravvivere, mangiare, non patire il freddo… La morte non è una tragedia. Soprattutto alla mia età e quando hai avuto una vita bella e piena».
Oltre a Dalí, quali sono stati i personaggi importanti della sua vita?
«Ho avuto la fortuna di incontrare uomini incredibili. Andy Warhol, David Bowie, i Rolling Stones, Onassis, Cardin, Mitterrand, Macron registi, stilisti. Mi hanno regalato tantissimo, anche se non sono stata intimamente legata a loro».
Com’erano quando li incontrava a tu per tu?
«Più erano famosi, più erano umili. La semplicità di quei grandi personaggi contrasta con le odierne celebrità, nate in tv o sul web, che fanno dell’arroganza e dell’alterigia uno stile di comportamento».
La fama di oggi è malata?
«Sì, perché dipende solo dai “like” della rete, e non dal talento. Non importa se sai cantare, recitare, scrivere, dipingere. L’importante è piacere e apparire. Gli influencer sono famosi perché sono famosi. Una tautologia delirante».
Usa i social?
«Personalmente no, ma la mia casa discografica sì. C’è Amanda Lear su Instagram, su Facebook. Anzi ce ne sono tante. Perché spesso mi rubano l’identità. Ormai non sei neanche più proprietaria del tuo nome».
Che libro tiene sul comodino?
«L’elogio della follia di Erasmo. Ho visto una nuova edizione in vetrina e l’ho ricomprato. Un tocco di follia è necessario per capire il mondo. Bisogna vivere di errori e profumi».
Un classico amato della sua biblioteca?
«Agatha Christie. Sono un’accanita lettrice dei suoi delitti. Sapeva scoperchiare i peccati del mondo con perfidia e ironia. Poirot, un insopportabile vecchio egoista; Miss Marple, una zitella ficcanaso. Che meraviglia di coppia!».
Si è espressa attraverso vari linguaggi: qual è il più congeniale?
«La pittura. Fin da bambina ho amato i colori, le matite, i pennelli. La pittura è un’arte molto solitaria che ti permette di esprimere ciò che hai dentro. La rabbia, i sogni, la libido. Il resto, è sempre frutto di un lavoro di squadra. Davanti alla tela sei da solo, come nella psicoanalisi. Dipingo tutti i giorni».
Che cosa dipinge?
«Parecchi ritratti. Mick Jagger, Bowie, García Lorca... Mi chiedono anche nudi maschili di tipi muscolosi, con gran bicipiti, spallone possenti. E bei sederi. E devo dire che le chiappe mi vengono parecchio bene. Ma dipingo senza modelli. Vado di memoria». —