La Stampa, 14 gennaio 2023
ancora sul sesso in carcere
Vietare ai detenuti di fare sesso con i loro partner potrebbe colpire i diritti costituzionali. E siamo sicuri che costringerli a una vita asessuata favorisca la loro crescita personale, la maturità della persona, la rete di relazioni familiari che dovrebbe accoglierli all’uscita dal carcere? Il giudice di sorveglianza di Spoleto si è posto alcuni problemi non banali, che dovrebbero interrogare l’intera società, e intanto ha posto il quesito alla Corte costituzionale.
Un passo indietro. Sono anni che si parla di concedere pause di intimità ai detenuti italiani. Qualche sperimentazione c’è stata, aggirando i regolamenti. Ma il problema è che la legge non lo consente. Anzi lo vieta, perché il regolamento carcerario impone che i colloqui del detenuto con il o la partner, anche se concesso in sale separate dalla grande sala dei parlatori, dev’essere sempre sottoposto alla vigilanza degli agenti. Il carcere non è mai considerato un luogo privato, ma pubblico per definizione. E va da sé che il sesso in un luogo pubblico non si può fare perché, a rigore, è un reato in sé.
Sullo scoglio della legge si è bloccata ogni fuga in avanti. E sono finite nel nulla anche due proposte di legge, avanzate dai Consigli regionali di Toscana e Lazio. Sono ormai materiale per gli archivi.
Ci riprova adesso il giudice Fabio Gianfilippi, chiamato in causa da un reclamo di un detenuto. «L’interessato – è la premessa – si duole del divieto impostogli dall’amministrazione di svolgere colloqui intimi con i propri familiari e in particolare con la compagna». Quel che è permesso ai detenuti di Francia, Svizzera, Austria, Slovenia o Spagna, infatti, e complessivamente in 31 Paesi europei (ma anche in India, Messico, Israele, Canada) agli italiani è negato. E ci sarebbero pure in questo senso le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa o del Parlamento europeo che auspicano le «visite coniugali» ai detenuti. E c’è anche la Corte europea dei diritti dell’Uomo, il tribunale internazionale di Strasburgo, a manifestare apprezzamento per gli Stati che prevedono i colloqui intimi e l’esercizio dell’affettività anche di tipo sessuale. C’è una recente sentenza del 2021 che ribadisce questo orientamento.
In Italia, non si può. «Una amputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità quale la dimensione sessuale dell’affettività – scrive allora il giudice Gianfilippi – finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta».
Siccome non ci sarebbero motivi di sicurezza ad impedirlo (il giudice stesso avverte che ovviamente non se ne può parlare per i detenuti sottoposti al 41 bis, il carcere duro che deve troncare i rapporti con l’esterno), la negazione della sessualità a chi sta dietro le sbarre «si volge in mera vessazione, umiliante e degradante, peraltro non soltanto per il condannato, ma per la persona con lui convivente, cui pure viene interdetto l’accesso a quella sessualità e genitorialità che potrebbe, ove lo si volesse, derivarne».
Alla suprema corte, il giudice di Spoleto rivolge un quesito che è insieme giuridico e morale: a vietare i rapporti sessuali, poi, non si contravviene allo spirito della Costituzione sulla protezione della famiglia, anche quella di un condannato?
Molti alzeranno il sopracciglio, su questa apertura ai diritti, anche sessuali, del detenuto. C’è però un ragionamento del magistrato che dovrebbe interessare tutti perché ne va dell’efficacia rieducativa delle pene. Dal divieto di sesso – scrive – «ne derivano conseguenze desocializzanti» e non fanno del tempo vissuto in carcere «una occasione per costruire e irrobustire relazioni socio-familiari esterne in grado di far da rete efficace alle fragilità personali».
Nel 2012 un caso analogo finì davanti alla Corte costituzionale. Quella volta il ricorso di un magistrato di Firenze fu dichiarato «inammissibile» perché la cancellazione della norma impugnata avrebbe ecceduto lo scopo perseguito. Il magistrato aveva concentrato infatti la sua ordinanza sul controllo a vista dei colloqui, ritenendolo incostituzionale, però ciò «non mira – scrisse la Consulta – ad impedire in modo specifico ed esclusivo i rapporti affettivi intimi tra il recluso e il suo partner, ma persegue finalità generali di tutela dell’ordine e della sicurezza all’interno degli istituti».
Nell’occasione, i supremi giudici lanciarono uno dei loro moniti al Parlamento: «Si tratta di un problema – scrivevano – che merita ogni attenzione al legislatore anche alla luce degli atti sovranazionali, peraltro non immediatamente vincolanti, e dall’esperienza comparatistica, che vede un numero sempre crescente di Stati riconoscere, in varie forme e con diversi limiti, il diritto dei detenuti a una vita affettiva e sessuale intramuraria».
Da allora sono passati dieci anni. Molta acqua è passata sotto i ponti. La sensibilità ai diritti individuali è mutata. Nel 2012 era già «una esigenza reale e fortemente avvertita». Chissà che ne penseranno gli attuali inquilini del palazzo della Consulta. —