il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2023
Reportage da Bakhmut
Bakhmut. La strada per Bakhmut va affrontata a grande velocità, un lunga linea dritta che divide le due artiglierie nemiche che si combattono. Rallentare significa essere presi di mira, ma non ci sono alternative. Entrati nel cuore della città bisogna parcheggiare in sicurezza il veicolo, scendere e andare subito nel posto da documentare. Si cammina lungo i muri, mai nel centro delle strade, a poche decine di metri è normale sentire l’esplosione di un colpo di mortaio. Sono giorni durissimi per Bakhmut, a nord la città di Soledar è stata presa dai russi della Wagner. Il governo ucraino fino a 48 ore prima sosteneva tramite Hanna Malyar della Difesa che i diversi tentativi russi di assalto erano stati respinti.
Questo significa che la città di Bakhmut sarà colpita da tre punti diversi: nord, est e sud. Difficilissimo resistere in queste condizioni. In città eroici volontari tengono aperti vari centri di accoglienza per gli abitanti rimasti, all’interno si assiste a scene di miseria e paura: code per un pasto caldo, volti avviliti fissano la tv accesa che ininterrottamente manda immagini di guerra, che è proprio lì fuori dalla porta dove ci troviamo e l’odore acre di una massa di persone che non si fanno una doccia da tempo. Tra i volontari del primo centro che riusciamo a raggiungere c’è Ruslan, un ragazzo giovanissimo che gentilmente ci offre un caffè: “Qui sono una cinquantina quelli che vengono tutti i giorni per mangiare e stare al riparo, hanno colpito un paio di ore fa proprio a pochi metri dall’ingresso, per fortuna non è morto nessuno”. Effettivamente mentre facciamo interviste e documentiamo l’interno si sentono colpi in arrivo e sono sempre vicini, ma tutti sono concentrati a usare il cellulare oltre che vedere la televisione, perché c’è una connessione a Internet grazie a Starlink, il satellitare di Musk, e poter comunicare con il mondo è la cosa più importante per ognuno di loro. Non ci sono solo anziani, ma anche giovani coppie, e nel centro c’è persino allestito una specie di asilo nido. Lo chiamano punto di raccolta, e intorno a esso c’è l’inferno.
“Nessuno rimane qui a dormire, non possiamo organizzare un dormitorio, solo portare le brandine è impossibile, hai visto cosa c’è la fuori? Parcheggi il furgone e magari dopo pochi minuti esplode perché colpito”. Ruslan si vede che è da almeno un mese che come altri colleghi lavora per dare una mano, da portare le zuppe a chi è in difficoltà anche a muoversi a tenere accesa la stufa a legna. I comandanti di posizione a Bakhmut chiedono uniti più armi, carri armati ed equipaggiamento per combattimenti urbani, i grandi paesi occidentali promettono di inviare, ma i tempi sono brevissimi: servono ora, ogni giorno può essere troppo tardi. È una gara di dichiarazioni tra Gran Bretagna, Francia e Germania, ma il destino di Bakhmut potrebbe essere deciso a breve, a meno che non avvenga un miracolo.
Il presidente Zelensky oramai quasi un mese fa proprio a Bakhmut aveva premiato i soldati che combattono in questa zona prima del suo acclamato intervento negli Stati Uniti, per molti è sembrata una pacca sulle spalle per dire: “Siete stati bravi, ma adesso non c’è più niente da fare”. Ma qui gli ucraini qui combattono e affrontano due nemici: i russi e il gelo. L’ospedale di Kramatorsk si sta prendendo cura di tanti soldati, avvolti nelle coperte termiche che stanno soffrendo di ipotermia, terribili immagini nei canali di telegram mostrano alcuni di loro morti gelati, in piccole buche scavate nel terreno perché dovevano fare da vedette. Morire da soli, nel buio mentre il gelo ti avvolge. Ci avviamo in un altro centro, ancora più all’interno, e anche qui sono tanti quelli che si scaldano e cercano di comunicare col mondo fuori. Stavolta sono molti di più almeno un centinaio, e nessuno vuole parlare con i reporter. Sono stanchi, hanno fame e cosa possono dire che non sia ovvio? Tatiana una delle volontarie è nata e cresciuta a Bakhmut, con una forza incredibile tutti i giorni coordina i suoi colleghi e si prende cura di chiunque, ma è dura: “Uscire per strada e abituarsi a trovare dei morti, che magari erano qui a chiedere riparo un paio di giorni prima. Nessuno fa più evacuazioni, non osate andare verso Soledar, due volontari sono scomparsi e non credo che siano vivi”.