Il Messaggero, 14 gennaio 2023
Intervista a Paolo Conte
«In fondo rimango un vecchio pittore che ogni tanto fa altro». Parlando nel suo studio di Asti del concerto che il 19 febbraio gli aprirà, primo interprete della canzone d’autore, i portoni della Scala, Paolo Conte gioca con la sua vita tra codici, pennelli e canzoni. Il tour, oltre che alla Scala, lo porterà anche a Roma il 6 giugno, all’Auditorium. Che significa per lui fare musica? «Oggi come allora: sorprendersi, e qualche volta segretamente applaudirsi».
Avvocato, come si sente alla vigilia di questo debutto?
«Non sono mai stato alla Scala da spettatore, lo confesso, ma via Sky Hd Classica seguo le sue opere, mi nutro della Callas e di Toscanini. Quel teatro è la trincea della lirica. La mia presenza è solo un esperimento. Non so ancora se sarò solo il primo o l’ultimo».
A lei hanno concesso la sala del Piermarini, Bob Dylan è ancora in attesa di una risposta.
«Credo che il Nobel a non letterati di professione, come Dylan e Dario Fo sia stato sacrosanto. Ma penso che sotto il profilo letterario gli italiani abbiano fornito un apporto anche più consistente di quello dei colleghi americani o dei francesi. Anche se non sempre gli è stato riconosciuto».
Com’è nata l’operazione Conte alla Scala?
«Come al solito da Caterina Caselli, che una ne pensa e mille ne fa. A metà maggio, in occasione di un mio concerto a Milano, ha lanciato l’idea e a giugno avevamo già la risposta (in realtà La Scala aveva dato il suo assenso già una quindicina di anni fa, ma allora lui era alle prese con una settimana di repliche a Parigi- ndr)».
«Niente di più seducente c’è/ di un’orchestra eccitata e ninfomane/ chiusa nel golfo mistico/ che ribolle di tempesta e libertà» canta ne Il maestro. Che rapporto ha con la lirica?
«Il colpo di fulmine l’ho avuto da bambino, quando l’emozione per un’aria di Verdi ascoltata alla radio mi fece cadere dal cavallo a dondolo. Poi però gli ho preferito la sinfonica e classica strumentale in genere. Da 25 anni o giù di lì, seguendo come dicevo la lirica in tv, ho scoperto cose interessanti. Ma rimango un verdiano, trovo imbattibile la trilogia formata da La traviata, Aida e Il trovatore. Puccini è immenso, ma il suo muoversi verso l’Oriente ogni tanto gli dà una tinta malinconica, mentre Verdi ha sempre una tensione straordinaria».
C’è anche Teatro, da lei scritta per l’addio all’Alfieri di Asti. Altre canzoni da rispolverare per l’occasione?
«Direi Dal loggione, anche perché quello dell’Alfieri si dice fosse fra i più vibranti e rumorosi, dopo quello della Scala e del Comunale di Parma».
Il palco della Scala è a sua disposizione. Da spettatore chi avrebbe voluto vederci?
«Sul fronte del jazz, le mie passioni storiche: Louis Armstrong, Sidney Bechet e Art Tatum. Per la lirica Pavarotti, che rimane il mio tenore preferito».
Cos’è più rivoluzionario, e importante, per la canzone d’autore italiana: lei alla Scala o Marracash alla Targa Tenco?
«Forse la mia presenza nel regno dei melomani».
Il suo canzoniere è popolato di personaggi.
«Sera dopo sera mi sono affezionato a loro: dall’uomo del Mocambo al protagonista di Vita da sosia, in cui, per raccontare l’accoglienza mas tribolante riservata delle frequentatrici di una casa di tolleranza ad un tizio scambiato per un comandante della guardia civil, metto assieme lingua italiana, spagnola e dialetto napoletano trasformando il tutto in una specie di zarzuela».
Sanremo ormai è alle porte: se la prese quando, nel 1985, Gianni Ravera bocciò la sua Spaccami il cuore affidata a Mia Martini?
«Noi autori siamo sempre stati dei piccoli nomi, tra parentesi, sotto ai titoli delle canzoni. Al tempo non seppi neppure che il pezzo era stato presentato al Festival. Poi, però, oltre alla Martini, quel pezzo l’ha inciso, in inglese, Miriam Makeba con Dizzy Gillespie: un bel festival, direi».
Il suo primo concerto?
«Alla metà degli Anni Settanta nella hall di una vecchia funivia in disuso».
San Siro è diventato la Scala dei concerti. Lo vogliono abbattere.
«No so quali interessi ci siano dietro. Lo lascerei così com’è».
Parola di milanista?
«Mi piace il football e un po’ me ne intendo, ho una passione per il Diavolo fin da bambino. Ad Asti da piccoli eravamo tutti per il Grande Torino. Dopo la tragedia di Superga, però, passammo in parecchi alla Juventus. All’età di 10-11 anni mio zio mi portò a vedere Juve-Milan. I bianconeri andarono in vantaggio con una rete di John Hansen, seguita da una rumba milanista firmata Gren, Nordahl e Liedholm che fissò il risultato finale sull’1 a 7. Fu così che cambiai fede calcistica».