ItaliaOggi, 14 gennaio 2023
In morte della banca centrale svizzera
La fine di un mito?
Chi avrebbe mai potuto anche solo immaginare che la Banca centrale della Svizzera, cioè del paese che si identifica con il denaro, lecito o illecito che sia, chiudesse il proprio bilancio con una perdita addirittura di 134 miliardi di franchi. È successo con il bilancio ultimo, quello del 2022, che con puntualità assoluta è stato annunciato da Berna nei giorni scorsi.
Che cosa sta succedendo, è la prima terribile scossa tellurica di un sistema monetario e finanziario che ha sempre avuto nella Svizzera il porto sicuro della ricchezza, lecito o illecito, giova ripeterlo?
Per fortuna, il terremoto al momento riguarda solo la Svizzera dove gli gnomi sembrano aver perso la bussola. Ma è anche il segno della profonda trasformazione in atto del sistema globale economico, finanziario e monetario.
La Banca centrale svizzera è posseduta dai Cantoni che compongono la Confederazione elvetica. I cantoni quest’anno non riceveranno il dividendo.
Ma come è potuta accedere una tale catastrofe, soprattutto sul piano della insicurezza che essa trasmette al mondo finanziario globale?
La mega perdita del 2022, come spiega un giovane ma affermato consulente finanziario che vuole mantenere l’anonimato, è figlia addirittura di una decisione sciagurata (e «truffaldina», aggiunge il consulente finanziario) consumata il 15 gennaio 2015. Quel giorno il presidente del consiglio direttivo, Thomas Jordan (tuttora in carica), si presentò davanti ai media, giornali e televisioni, annunciando la fine della soglia minima fra franco svizzero ed euro in vigore fino a quel momento. Esattamente 1,20 franchi per un euro.
In realtà il 13 gennaio 2015 il suo vice aveva dichiarato che non si sarebbe mai compiuto nessun atto per rafforzare il franco oltre il livello di 1,20 franchi per un euro.
Con velocità fulminea, appena il presidente Jordan fece l’annuncio contrario, il franco svizzero si apprezzò fino a un rapporto di 0,85 franchi per un euro. Nei giorni che seguirono vari broker ed hedge fund fallirono. Infatti fino ad allora avevano fatto quello che viene definito il «lavoro sporco» per conto della Banca centrale svizzera, vendendo franchi con la certezza che la parola, sia pure dal vice capo della banca, venisse rispettata.
Non potendosi il franco apprezzare oltre il livello di 1,20 franchi per un euro, la vendita di franchi contro euro era un’operazione che non poteva generare perdite (occasione veramente unica per il mondo finanziario, dove solitamente i prezzi possono muoversi in entrambe le direzioni, cioè su o giù).
Fino a quel momento la Banca centrale svizzera non aveva dovuto vendere un franco per tenere il cosiddetto peg, cioè tasso di cambio con l’euro, perché l’operazione veniva fatta per la Banca centrale dal mercato stesso.
Dallo sciagurato annuncio del 15 gennaio 2015 la banca centrale ha dovuto intervenire stampando moneta da vendere per evitare che il franco si apprezzasse troppo perché sempre richiesto a livello internazionale come valuta rifugio.
Con la stampa di franchi il bilancio della Banca è letteralmente esploso e siccome per vendere franchi occorre comprare altre valute, la Banca centrale svizzera si è riempita di dollari, euro ed altre valute. Siccome i dollari e gli euro hanno avuto rendimenti negativi, mentre la Banca centrale doveva fare utili per pagare il dividendo ai Cantoni della Confederazione, la stessa Banca ha cominciato a comprare azioni di società quotate in borsa. In questo modo, la stessa Banca centrale è diventata una sorta di gigantesco hedge fund e nel 2022 per l’andamento dei mercati ne ha pagato le conseguenze.
Quel dietrofront, dal 13 gennaio in cui il vice di Jordan aveva affermato che il livello di 1,20 franchi contro euro non sarebbe mai stato toccato, al 15 gennaio con l’esatto contrario deciso dallo stesso Jordan per provocare una forte rivalutazione del franco, si è tradotto a distanza di sette anni della più clamorosa perdita di bilancio di quella che era considerata la banca più seria e solida del mercato. Anche gli gnomi fanno i furbi speculatori. E speculando troppo, succede talvolta che si raccolgano perdite.
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Ma se i mali del mondo fossero solo la fortissima perdita della Banca centrale svizzera… pace. Gli investitori hanno imparato anche che gli gnomi non sono affidabili. Il problema vero del mondo, in questo momento, è la minaccia seria sulla prosecuzione della globalizzazione. C’è anzi chi dice che la globalizzazione è già morta. Ed è stata proprio la crescente globalizzazione a far crescere il benessere del mondo fin dal 1945 per iniziativa degli Usa. La globalizzazione, cioè un’integrazione economica come non si era mai vista, aveva consentito di togliere dalla profonda povertà milioni di persone e di sconfiggere l’Unione sovietica durante la guerra fredda.
Aveva cominciato il presidente Donald Trump a limitare con i dazi feroci l’integrazione delle economie quantomeno occidentali. Ma anche l’attempato presidente Joe Biden ha lanciato una politica economica aggressiva con ben 450 miliardi di sussidi per l’energia verde e tutto ciò che ne consegue per quanto riguarda le auto elettriche e i semiconduttori. La condizione è che tutte queste produzioni diventino locali, cioè negli Usa. Ma soprattutto oltre il 60% del mercato azionario americano è finito sotto il controllo della burocrazia appunto perché gli investimenti siano fatti negli Usa. L’obiettivo primo è evitare l’esportazione, principalmente in Cina, di componenti importanti per la produzione di chip. L’obiettivo, che crea consenso in una parte significativa degli americani, è che vinca la tecnologia americana nella competizione con la Cina. Ed è, insolito per gli Usa, che a condurre la competizione sia il governo soprattutto nelle aree in cui le imprese private hanno fallito. Il presidente Biden di fatto sta guidando la reindustrializzazione degli Usa appunto con sovvenzioni imponenti e la proibizione di esportare ciò che la Cina non ha.
Per questo, al di là dei colloqui diretti fra Biden e Xi Jinping da cui traspare un sostanziale rispetto reciproco, è evidente lo scontro economico con la Cina. I sostenitori di questa scelta di Biden la legittimano con il fatto che non appare sia avvenuto quanto sottintendeva, come uno degli obbiettivi della globalizzazione: l’evoluzione democratica del più popolato paese del mondo. Fra chi segue le scelte «primi gli Usa» di Biden, c’è ovviamente chi non vuole vedere crescere la ricchezza e la forza della Cina, sottintendendo che se 1,4 miliardi di cinesi non crescono oltre nel loro benessere la pace è più sicura. La più razionale posizione di chi sostiene la correttezza della reindustrializzazione degli Usa, è che in questo modo riaccenderà il capitalismo di mercato. Ma proprio mentre si sta formando questo movimento c’è il fatto che anche il presidente Biden rischia di essere azzoppato da problemi assimilabili a quelli di Trump per l’esistenza di documenti classificati trovati fuori dalle sedi previste.
Proprio questa non è una bella notizia per il recupero di valore della democrazia americana, dopo lo spettacolo pietoso dell’elezione del presidente della Camera solo alla quindicesima votazione.
C’è chi pensa che, anche per questa situazione politica, la reindustrializzazione degli Usa si potrà tradurre in un aumento dei prezzi, per la duplicazione di catene di approvvigionamento, soprattutto nel programma per liberarsi del carbonio. E che quindi grandi quantità di denaro pubblico andranno sprecate.
Dopo la Seconda guerra mondiale gli Usa avevano compreso che il loro interesse era l’interesse di molti altri paesi, sostenendo sempre di più la crescita del commercio mondiale sotto l’egida del Wto. Oggi c’è un clima opposto, anche perché, secondo chi sostiene che siamo alla fine della globalizzazione, la Cina non è democratica come auspicavano coloro che puntavano sulla crescita economica e la sottrazione di centinaia e centinaia di milioni di persone dalla fame quale spinta verso un regime diverso. Occorre prenderne atto da parte della Ue e dell’Italia, con l’obbiettivo, in questo contesto, di riuscire tuttavia di essere partner del più grande mercato del mondo, cioè della stessa Cina.
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L’altro enorme fenomeno di cui occorre prendere atto è la rivoluzione che genera il continuo, accelerato sviluppo della tecnologia. A doverne fare i conti con questa escalation sono sia le imprese, che sono costrette a riorganizzarsi sulla spinta dello sconvolgimento tecnologico, sia gli individui, i cittadini, e soprattutto i ragazzi, i giovani, che dalla tecnologia digitale sono circondati.
Insieme alle straordinarie opportunità che l’escalation digitale offre al mondo, ci sono le deformazioni sul piano proprio esistenziale. E un segnale che può spingere a riflettere su come prendere il meglio dalla tecnologia scartando il peggio, viene dalla crociata contro i social delle scuole pubbliche di Seattle al pari dello stato di New York. Le scuole di Seattle accusano le piattaforme Facebook, YouTube, Instagram, TikTok, Snapchat & c. di generare ansia, depressione, disagi alimentari e bullismo. In una parola danni alla salute mentale di milioni di giovani e giovanissimi. Nel documento di denuncia di 91 pagine si indica che dal 2009 al 2019 c’è stato un aumento del 30% degli studenti delle scuole pubbliche che hanno riferito di sentirsi «tristissimi o senza speranza quasi ogni giorno, di seguito, per due settimane o oltre». Uno degli effetti registrati, oltre quelli già indicati, è il cyberbullismo. Inevitabilmente, tutto ciò rende difficile o impossibile il lavoro educativo delle scuole, con la necessità di chiedere aiuto a professionisti della salute mentale. Cambiare i programmi di formazione. La conseguenza è che gli insegnanti devono essere riqualificati. In maniera letterale la denuncia contro Meta, proprietaria di Facebook e Instagram, Google per YouTube, ByteDance per la cinese TikTok e Snap, sostiene che «queste aziende hanno sfruttato con successo i cervelli vulnerabili di milioni di studenti attraverso un circuito vizioso di risposte positive sui social che porta all’uso eccessivo e quindi all’abuso delle piattaforme». In più: «Il contenuto che le aziende imputate propongono e indirizzano ai ragazzi è troppo spesso dannoso e teso allo sfruttamento per interessi economici».
In passato, per sostenere lo sviluppo degli Ott social, l’amministrazione americana aveva fatto approvare una legge che eliminava la responsabilità degli stessi per i contenuti non da loro prodotti. Il valore della denuncia fatta dal distretto scolastico di Seattle è di mettere in chiaro che questo schema non deve essere applicato ai temi della denuncia stessa, poiché mettere nei contenuti dannosità, sia pure di terze parti, è unicamente responsabilità dei social. E la clamorosa conferma viene proprio quando Facebook si permise, opportunamente, di non far comparire sul social i testi folli del presidente Trump. Il ragionamento è: se hanno potuto censurare legittimamente il presidente degli Stati Uniti in carica, non si vede perché non possano censurare contenuti che danneggiano i giovani. La spiegazione è semplice: quasi sempre i contenuti dannosi per i giovani, per esempio a favore dell’anoressia e dei disturbi alimentari, nascondono pesanti interessi economici.
La denuncia chiede alla corte di sentenziare che le aziende proprietarie dei social risarciscano i danni provocati ai ragazzi e paghino la prevenzione e le cure per l’eccessivo uso dei social, con i contenuti che hanno. Insieme ai distretti scolastici sono quindi scese in campo anche le famiglie dei ragazzi danneggiati, spesso in maniera gravissima, dall’uso eccessivo di diffusori di contenuti inadeguati e devianti. Il media che si è più impegnato e si sta impegnando per sostenere la battaglia dei distretti e delle famiglie è The Wall Street Journal, che aveva raccolto nel 2021 le dichiarazioni dell’ex-dipendente di Meta (allora Facebook), Frances Haugen, che rivelò come la sua ex-società conoscesse perfettamente i danni provocabili sui giovani ragazzi dalla dipendenza di Instagram, quali la depressione, l’ansia, l’anoressia e l’aumento del bullismo. Pur sapendolo, Facebook-Meta ha sempre favorito il profitto alla correttezza.
Se ce ne fosse stato bisogno, ecco un’altra fondamentale motivazione per promuovere una grande azione etica per tutto lo sviluppo dei prodotti digitali e più in generale del fenomeno stesso derivante dall’intelligenza artificiale, preziosissima, ma essa stessa produttrice di fenomeni gravi di cui ancora non conosciamo il limite. E la ragione per la quale Class Editori, in sintonia con The Wall Street Journal, cercherà di rendere al più presto operativa l’azione moralizzatrice da parte del progetto Robinhood AI, annunciato nel precedente Orsi&Tori. (riproduzione riservata)